Intervista a seth Godin

Il guru del marketing contro i social: «Non servono ai brand, riscopriamo l’attenzione»

di Giampaolo Colletti

Ghostwriter, il marketing scopre l'intelligenza artificiale

4' di lettura

Se il marketing fosse un colore sarebbe ancora il viola. Nonostante tutto. Come quella mucca che ha fatto il giro del mondo, tradotta in centinaia di lingue. Ma se l’attenzione preziosa di un tempo era distratta, oggi è parcellizzata in mille piattaforme. E sul banco degli imputati siedono senza diritto di replica i colossi dei social e del digitale. A loro non è concesso appello. E ai brand la necessità di ripensare il lavoro partendo dalla relazione.

Seth Godin, scrittore statunitense tra i massimi esperti mondiali di marketing, autore di 18 best seller tradotti in più di 35 lingue e venduti per milioni di copie ne è convinto. Godin da qualche giorno è uscito anche in Italia con “Questo è il marketing”, edito da Roi Edizioni, diventato già best seller in America per Wall Street Journal, Amazon e New York Times.

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«Dobbiamo far scendere i brand dalla giostra dei social media, che va sempre più veloce, ma non arriva mai da nessuna parte. È giunto il momento di smettere di convincere con insistenza e di disturbare o fare spamming, fingendo di essere i benvenuti. Siamo in una fase storica accelerata che non ammette però scorciatoie e occorre concentrarsi su un percorso lungo e sostenibile, tornare all’autenticità, che passa necessariamente dalle esperienze. A meno che tu non stia vendendo teoremi matematici, stai vendendo emozioni. D’altronde siamo umani, non cyborg. Almeno per ora», dice Godin, in questa intervista al Sole 24 Ore in esclusiva per l’Italia in occasione dell’uscita del libro. Ed ecco perché è il momento migliore per ripensare il marketing, uscendo dalla dittatura degli algoritmi e scommettendo sulle nicchie.

Godin, Che fase del marketing stiamo attraversando?

Il marketing ha lasciato l’era dell’attenzione rubata come strategia produttiva. Per cinquant’anni questo è stato il modello: le pubblicità hanno sottratto l’attenzione e hanno fatto guadagnare abbastanza soldi ai brand per comprare ulteriore pubblicità. Un approccio vincente anche per i media e che ha prosperato nella montatura pubblicitaria, nell’imbroglio, nella pressione. La nuova era invece è quella in cui gli annunci non sono il driver, ma il prodotto è il marketing. E l’attenzione è preziosa.

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Quale tipo di azioni devono promuovere i marchi?

Devono sforzarsi di mettersi in ascolto, provando a capire ciò di cui la società necessita realmente. Devono proporre una storia credibile, autorevole, onesta, coerente. Una storia che non è per tutti. L’incessante ricerca del pubblico di massa rende noiosi perché implica operare nella media, al centro della curva. E questo richiede di non offendere nessuno e di soddisfare tutti, conducendo a compromessi e generalizzazioni. Oggi occorre concentrarsi nel creare un mercato, anche muovendosi su una piccola scala.

La narrazione è sempre più complessa, frammentata, interattiva. In che modo la fruizione pervasiva e continua degli stream sui social la influenza?

È un errore vedere i social come un efficace mezzo di marketing di massa. Non è mai stato così. I social sono strumenti limitati e peraltro non ci rendono felici. Quindi un marchio deve affrontare questa verità: la cosa che ha funzionato in passato, che ti ha permesso di vendere roba mediocre a persone normali ora non funziona più ed è persa per sempre. L’alternativa oggi è fare qualcosa di cui valga la pena parlare. Insomma, costruire un’esperienza memorabile.

Nel nuovo libro racconta del marketing empatico e generoso: come possono le aziende lanciare campagne in questa direzione?

Semplicemente non possono farlo. Perché il concetto stesso di campagna implica che stai manipolando l’attenzione per vendere qualcosa. Occorre che le aziende imparino a dire: «Abbiamo strumenti e leve per servire al meglio le persone, aiutandole in modo diverso».

Che tipo di differenziazione va perseguita, in questi anni nei quali la soglia di attenzione è molto bassa?

L’idea di scarsa attenzione, la necessità di realizzare prodotti e servizi di valore e la corsa nel costruire reti sono concetti più che mai attuali. Ciò non significa però che sia facile. Le aziende noiose vogliono scambiare denaro con le vendite, quelle umane oggi sono interessanti e fanno la differenza.

Nel marketing c’è una moltiplicazione di profili “ibridi”, a metà strada tra comunicatori, analisti, traduttori di realtà complesse. E si parla di corporate activism: crede che questo impegno sociale e politico, talvolta anche divisivo, possa risultare vincente in un’epoca frammentata?

È un tema complesso e molto contemporaneo, ma vale la pena notare che le 500 aziende più influenti al mondo sono anche più grandi di qualsiasi altra nazione. Si sta creando ovunque una nuova governance anche come risposta all’emergere di uomini fintamente forti al comando ed espressione dei nuovi populismi. Ecco perché non sono sorpreso di vedere le aziende parlare di connessione, di civiltà, di impegno. Non è soltanto filantropia. È nel loro interesse esserci su questi temi.

Cosa consiglierebbe a questa nuova generazione di professionisti per lavorare meglio?

Credo che oggi l’abilità più importante sia l’empatia, ovvero quella capacità anche pratica di vedere gli altri per quello che sono veramente e di cogliere in loro ciò che sognano di essere. Se vuoi operare con efficacia nel marketing, devi andare sul mercato e imparare a non essere un ingranaggio di una gigantesca macchina, con compiti specifici e frammentati. Devi avere una visione di insieme. Ecco perché il nuovo marketing implica coraggio.

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