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Le nuove primavere pacifiche e incerte del mondo arabo

Dalle coste del Nord Africa, passando per il Libano, arrivando fino all’Iraq, milioni di arabi sono scesi in piazza da mesi. La protesta è, nella maggior parte dei casi, pacifica. L’esito incerto. I nuovi rivoluzionari sanno che devono aver pazienza. Perché questa volta lotteranno da soli. Memori di quanto avvenuto nel 2011, i Paesi occidentali appaiono reticenti ad appoggiare la loro causa

di Roberto Bongiorni

7' di lettura

Non vogliono guerre fratricide. Nè, in molti casi, puntano a rovesciare i loro governi con la forza. Quello che chiedono, con insistenza, è una transizione democratica. E soprattutto riforme economiche che restituiscano dignità e benessere. Una nuova ondata di proteste sta scuotendo il mondo arabo. Dalle coste del Nord Africa, passando per il Libano, arrivando fino all’Iraq, milioni di arabi sono scesi in piazza da mesi. La protesta è, nella maggior parte dei casi, pacifica. L’esito incerto. I nuovi rivoluzionari sanno che devono aver pazienza. Perché questa volta lotteranno da soli. Memori di quanto avvenuto nel 2011, i Paesi occidentali appaiono reticenti ad appoggiare la loro causa.

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I mali comuni delle nuove primavere
I mali comuni nei Paesi investiti dalle proteste si chiamano debito pubblico incontrollato, corruzione, assenza di riforme democratiche. Delle malattie ormai croniche. I cui sintomi si sono presto manifestati; disoccupazione , mancanza dei servizi di base, sperequazione della ricchezza. Eppure le cure offerte dai Governi arabi per migliorare le rispettive economie ed arginare il malcontento popolare sono finora state insufficienti, se non del tutto assenti. Lo stesso vale sul fronte della politica.

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Esasperati, disillusi, frustrati per una situazione non più sostenibile i manifestanti hanno riempito le strade e le piazze di Algeri. Le proteste sono poi dilagate in Sudan, con conseguenze inimmaginabili, hanno lambito l'Egitto, per poi estendersi fino al Libano e all'Iraq.

Cosa sta accadendo nel tormentato mondo arabo? A prima vista sembrerebbe sia nata una nuova primavera, in cui le rivendicazioni economiche sono il fattore trainante. La verità, probabilmente, è un'altra: l'onda lunga delle primavere arabe, o del lungo inverno che ne è seguito, non si è ancora esaurita. Per una semplice ragione; perché non sono state risolte le cause alla base del malcontento popolare e perché questo radicale processo di trasformazione sociale richiederà ancora molti anni.

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Tante analogie e tante differenze
Rispetto al terremoto che nel 2011 aveva scosso il mondo arabo, le nuove proteste, pur presentando diversi punti in comune, hanno anche numerose differenze. Che sia il Libano, l'Iraq , l'Algeria o il Sudan, non può non passare inosservata l'assenza dell'Islam politico. Certo, anche nel 2011, la rivolta partì dai giovani, spesso laici .Ma presto gli organizzati movimenti islamisti, come i Fratelli musulmani in Egitto, ed Ennahda in Tunisia, cavalcarono la protesta assumendone le redini. Altro motivo è la durata di queste proteste. Nel 2011 ci volle meno di un mese per rovesciare il regime di ben Ali in Tunisia e tre settimane per costringere il “presidente a vita” Hosni Mubarark a dimettersi.

In Libia, in Siria, in qualche modo anche in Yemen, la rivolta è presto degenerata in una cruenta guerra civile. Quasi avessero preso coscienza che una paziente, perseverante e pacifica protesta è il solo mezzo per soddisfare le loro rivendicazioni, consapevoli che una rivolta armata rischia invece di vanificarle, i protagonisti della nuova primavera hanno intrapreso una strada diversa rispetto al 2011: le loro manifestazione, finora, sono state decisamente meno violente ma molto più lunghe. È una sorta di estenuante braccio di ferro in cui i due sfidanti evitano iniziative drastiche: i regimi appaiono disposti a fare più concessioni.

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L'esempio più illuminante è l'Algeria in cui l'Esercito, accontentando le richieste dei manifestanti, ha spinto il presidente Bouteflika a rinunciare a candidarsi per la sesta volta . Al di là di quanto accaduto in Sudan ed in parte in Iraq, gli stessi regimi preferiscono non dare il via a sanguinose repressioni. Come invece era sempre accaduto nel 2011. Da parte loro i manifestanti hanno imparato a contenere la loro rabbia, a coltivare l'arte della pazienza. Le gioiose manifestazioni del Libano, i loro balli, i canti, sono l'ultimo esempio.

L’assordante silenzio dell'Occidente
Che accada in Nord Africa o nel lontano Iraq, vi è un'altra grande differenza rispetto al passato. Non si può non notarla. È il disinteresse mostrato dalle potenze regionali del Medio Oriente e l’apatia mal dissimulata da parte di quei Paesi occidentali che tanto si erano sbilanciate nel 2011. Al di là di qualche vana dichiarazione di sostegno, il silenzio di Parigi per quanto sta accadendo in Libano, ma anche in Algeria, perfino in Egitto (dove le aziende francesi, pubbliche e private, hanno grandi interessi) è davvero insolito.

È un silenzio quasi assordante. Sono silenziosi anche gli Stati Uniti, che nel 2011 avevano apertamente ritirato il sostegno al loro alleato arabo, il presidente Hosni Mubarak. Tacciono perfino la Turchia e il ricchissimo Qatar, che nel 2011 e negli anni seguenti si schierarono apertamente in Libia finanziando i movimenti islamici legati alla Fratellanza Musulmana. Doha oggi appare troppo impegnata ad affrontare le conseguenze dell'embargo decretato da Riad e dalle monarchie sunnite del Golfo nel giugno del 2017 per disperdere altre energie in manifestazioni prive di una connotazione islamica. Quanto alla Turchia, la nuova offensiva militare lanciata nel nord della Siria contro le milizie curde sembra lasciar poco spazio ad altre iniziative.

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Restano in silenzio, quasi dessero un tacito assenso al mantenimento dello status quo, anche la Russia, divenuta la nuova potenza mondiale più influente in Medio Oriente e l'Iran, che in Iraq si è tacitamente schierato dalla parte delle milizie irachene filo-iraniane che si sono macchiate di gravi atrocità contro i manifestanti. Il tutto con grande sollievo delle monarchie sunnite, in prima linea l'Arabia Saudita, terrorizzate che il vento della protesta, e la creazione di pericolosi precedenti alle porte di casa, possa travolgere i loro regni. Nessuno può prevedere cosa sarà il Medio Oriente da qui a 10 anni. È un processo di trasformazione che richiederà molti anni. E che darà i risultati, se mai li darà, solo sul lungo periodo.

La whatsapp revolution del Libano
Il primo giorno, il 17 ottobre, l'hanno chiamato la “ whatsapp revolution”. Perché la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la tassa decisa dal Governo sulle chiamate gratuite della nota App. Poi, tre giorni dopo era già la “Dj revolution”, a rimarcare il carattere non violento di questo movimento trasversale e multi confessionale. Era dal febbraio 2005, quando in un grave attentato perse la vita l'ex premier Rafi Hariri, che non si vedevano manifestazioni così imponenti. Allora il Libano era spaccato in due: pro siriani contro filo occidentali. Sunniti contro sciiti. Questa volta la storia è diversa.

In un Paese dove la Costituzione prevede una rigida spartizione dei poteri in base alle confessioni religiose (il primo ministro è musulmano sunnita, il capo del Parlamento sciita, il Presidente della Repubblica cristiano maronita), e i diversi gruppi sono spesso in contrasto tra loro, questa protesta popolare è stata, per la prima volta, multi confessionale e trasversale (vi hanno partecipato anche i drusi). Vedere la comunità sciita scendere massicciamente in piazza, spesso invocando slogan contro i propri storici leader, come Nabil Berri, capo del movimento Amal, e perfino contro Hassan Nasrallah, guida indiscussa del potente movimento filo-iraniano Hezbollah, è un fatto storico.

Occorrerà vedere se in Libano il Governo saprà davvero dare una risposta concreta e se i libanesi si accontenteranno delle riforme e delle promesse dell'élite al potere. I mali del Libano sono ormai cronici. I servizi pubblici sono allo sfascio, il debito pubblico si è gonfiato al 150% del Pil. Neanche le ricette del mago della finanza creativa, il governatore della Banca centrale, Riad Salameh, sembrano ora in grado far galleggiare il paese.

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Algeria, il gigante malato
Se in Libano le proteste sono appena iniziate in Algeria durano orami da otto mesi. Dal 22 febbraio, ogni martedì, puntuali, gli algerini si ritrovano nelle strade per chiedere all'esercito, il vero centro di potere del Paese, di farsi da parte e avviare una nuova e credibile transizione democratica. A prima vista le loro rivendicazioni appaiono politiche, ma dietro alla perseveranza degli algerini c'è anche la rabbia dei giovani e meno giovani per le promesse mancate e soprattutto per la crisi economica in corso.
La situazione sta divenendo insostenibile. Dal 2014 a causa anche della caduta dei prezzi del greggio, l'economia algerina ha cominciato a mostrare segni di sofferenza.

Nel 2018 il debito pubblico è salito al 38,4% del Pil, l'11% in più rispetto al 2017. Il Fondo sovrano da 70 miliardi di dollari, utilizzato in passato per rifinanziare il deficit, si è già esaurito nel 2017. Le riserve in valuta pregiata della banca centrale sono precipitate in cinque anni da 194 a 70 miliardi di dollari. Questo Paese che importa molti dei beni che consuma, non è riuscito a dare il via quell'indispensabile diversificazione dell'economia (il 90% dell'export è dato dal greggio) necessaria a creare anche più posti di lavoro.

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In Egitto cade il muro della paura
L'onda delle proteste ha investito anche l'Egitto del presidente Abdul Fattah al-Sisi, che negli ultimi anni ha preso una deriva autoritaria schiacciando il dissenso e soffocando la libertà di stampa. Dopo anni di difficoltà, il contesto economico appare promettente. Nell'anno fiscale che si è concluso lo scorso giugno il Pil ha registrato un'accelerazione del 5,6 per cento. Si tratta del l'incremento più alto dal 2010, l'anno precedente lo scoppio della primavera araba, culminata nel febbraio 2011. È un passo in avanti anche rispetto al 2017-2018, quando la crescita era stata del 5,3 per cento. Il debito ed il deficit del budget hanno iniziato un trend discendente che infonde fiducia negli investitori stranieri.

L’economia ha dunque ripreso a correre. Ma a quale prezzo? Quello in corso è un boom senza benessere, dove le sperequazioni economiche stanno creando una sacca di povertà sempre più grande. La classe borghese rischia l'estinzione. Nessuno poteva immaginare che, il 21 settembre, gli egiziani abbattessero il muro della paura e si riversassero in Piazza Tahrir a manifestare contro il presidente e la corruzione del Governo. La risposta del regime è stata durissima: oltre 1.800 arresti in sette giorni. Ma il malcontento popolare è pronto a riesplodere.

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Il tormentato Irak a rischio implosione
Da un manipolo di giovani laureati senza lavoro, e di venditori di strada, le proteste, scoppiate a inizio ottobre, hanno assunto una dimensione nazionale mettendo a rischio un Governo nato dopo lunghi ed estenuanti negoziati. Al cuore di queste manifestazioni, sovente violente, ci sono ancora una volta le rivendicazioni economiche (soprattutto il caro-vita), ma anche politiche. Agli occhi dei manifestanti, l'élite al potere è pervasa dalla corruzione, è troppo filo iraniana ed ha dissipato le grandi entrate petrolifere a disposizione del Governo.

La repressione, in questo caso, è stata dura. Circa 150 le vittime nella prima settimana. Gli iracheni non si sono intimoriti. Venerdì scorso sono tornati a manifestare anche nella Capitale. Le vittime sono state più di 30 in un solo giorno. «Non c'è una soluzione magica», ha dovuto ammettere il primo ministro Abdul Mahdi, il quale ha annunciato un futuro rimpasto di Governo. Troppo poco. Una dichiarazione che non prelude a nulla di buono.

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