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Coronavirus, parla lo pneumologo di Lodi che ha curato i primi pazienti: «Malattia grave non solo per gli anziani»

L’ospedale di Lodi è stato il primo fronte europeo nella lotta al coronavirus. La testimonianza del medico che ha gestito l’ondata dal reparto di pneumologia

di Gabriele Meoni

Giuseppe Cipolla,responsabile di pneumologia all’Asst di Lodi

4' di lettura

Da un giorno all’altro si sono trovati ad affrontare il primo grande focolaio al mondo di Covid-19 fuori dalla Cina. Un’ondata improvvisa, violenta, inattesa nelle dimensioni. Per Giuseppe Cipolla, 55 anni, responsabile di pneumologia dell’Azienda socio sanitaria di Lodi, e per i suoi colleghi, quella settimana di metà febbraio ha segnato la fine della normalità e l’inizio di un periodo di emergenza mai vissuto prima nella loro vita professionale. È passato un mese e da allora Cipolla non ha mai staccato un giorno, lui come tutti gli altri, medici, infermieri e personale ausiliario.

Ci racconti di quei primi giorni. Avevate avuto delle avvisaglie nelle settimane precedenti?
Nessuna. Fino a pochi giorni prima, il nostro reparto lavorava in una situazione di normalità per il periodo invernale. C’era stato qualche caso di polmonite legato all’influenza stagionale, ma nulla di anomalo rispetto agli anni precedenti. Io avevo preso qualche giorno di ferie: ho ricevuto la telefonata dall’ospedale il giovedì sera e il venerdì mattina ero in corsia. Nelle prime settimane si cominciava alle 7 del mattino e si finiva all’una di notte, sette giorni su sette.

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Come avete gestito un’onda così travolgente?
Ci siamo ritrovati in poche ore a dover reggere l’urto di ricoveri in serie, di persone sofferenti che avevano bisogno con urgenza di supporti respiratori. L’ospedale di Codogno era stato costretto a chiudere e tutti i malati del Basso Lodigiano confluivano sul nostro.
Non c’era tempo di riflettere, bisognava agire e basta. Devo ringraziare tutto il personale della nostra azienda ospedaliera, è stato eccezionale. E devo anche dire grazie a tutti i medici che sono venuti ad aiutarci da altri ospedali, tra cui il San Raffaele, il Fatebenefratelli, il Niguarda, l’Asst di Melegnano e di Monza, ma non vorrei dimenticarne qualcuno. Siamo stati la prima linea della lotta al Covid-19, la nostra esperienza è servita a tutti per preparare una strategia di contrasto.

Come avete riorganizzato l’ospedale?
Abbiamo diviso i reparti dei malati di coronavirus a seconda della loro gravità e potenziato i posti di terapia intensiva, che ora sono diventati 23. Abbiamo poi creato due accessi distinti al Pronto soccorso, uno per i pazienti Covid-19 e uno per tutti gli altri. L’attività ospedaliera, tengo a sottolinearlo, va avanti. Gli interventi non differibili proseguono, così come l’attività oncologica. La nostra riorganizzazione è servita come modello agli altri ospedali che purtroppo ora si ritrovano nel pieno della battaglia.

È passato un mese da quei primi giorni. I dati indicano che la situazione nel Lodigiano è in miglioramento. Lo conferma?
Sì, possiamo dire che siamo ancora in emergenza, ma non più in una situazione di sofferenza come all’inizio. I nuovi casi nel Basso Lodigiano sono in calo, ma sempre elevati, l’onda ora si è spostata più su Lodi. Le strategie di contenimento decise dalle autorità qui hanno funzionato.

A livello di personale siete ancora in sofferenza?
Gli aiuti degli altri presidi sono stati fondamentali così come l’arrivo di medici militari, preziosissimi. Il problema però è che per questo tipo di malattia servono competenze specifiche e in particolare due specializzazioni su tutte: pneumologi e rianimatori. Non si inventano da un giorno all’altro, serve una preparazione ad hoc.

Parliamo di questo virus, lei da pneumologo lo vede da vicino tutti i giorni: quanto è pericoloso?
Tecnicamente ha ragione chi dice che è una forma di influenza perché è una malattia di natura virale. Attenzione però. Si tratta di una virosi con due caratteristiche che la rendono molto temibile: è estremamente contagiosa e può provocare, fino al 20% dei casi, polmoniti severe.

Dal suo osservatorio quali sono le fasce di età più a rischio di sviluppare forme gravi di coronavirus?
Nei primi giorni visitavamo soprattutto anziani, poi però abbiamo avuto anche pazienti più giovani. Una categoria a rischio, per la nostra esperienza, è quella che si trova nella fascia tra i 40 e i 60 anni. Soggetti in salute il cui sistema immunitario è perfettamente funzionante, ma che in certi casi reagisce in maniera eccessiva e può dare origine a un’infiammazione polmonare grave, detta ARDS (sindrome da distress respiratorio), che richiede un trattamento in terapia intensiva. Fortunamente, essendo persone relativamente giovani e sane, la loro prognosi è buona e porta alla guarigione, mentre nei soggetti più anziani purtroppo il decorso può essere sfavorevole.

Come si spiega il tasso di letalità così alto in Lombardia?
Non sono un epidemiologo e dunque non ho una risposta definitiva. Quello che le posso dire è che nel nostro territorio i casi di Covid-19 sono molto più numerosi di quelli ufficiali. I tamponi si fanno solo ai pazienti in Pronto soccorso, non a quelli a casa. Sappiamo attraverso la rete dei medici di base di tante persone malate a domicilio che fortunatamente non sviluppano forme così aggressive. A volte vengono in ospedale per controlli, ma poi le rimandiamo a casa perché non c’è bisogno di ricovero. Anche qui nel Lodigiano, insomma, i casi confermati sono solo la punta dell’iceberg.

PER APPROFONDIRE:
Coronavirus, tutto quello che c’è da sapere
La mappa dei contagi

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