lo studio del centro studi confindustria

Brexit può costare cara al made in Italy. A rischio export e investimenti esteri

(REUTERS)

3' di lettura

«La bocciatura dell’accordo sulla Brexit aumenta l’incertezza. Ciò ha un impatto immediato su sterlina e fiducia dei consumatori, che restano vicine ai minimi e tiene giù anche gli investimenti, rischiando di compromettere le prospettive di crescita dell’economia del Regno Unito nel medio e lungo periodo».

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A delineare lo scenario è il Centro studi di Confindustria (Csc), che va oltre: «Ne risentiranno le imprese esportatrici italiane che rischiano di vedere ridotti i volumi di beni rivolti al mercato britannico: in ballo 23 miliardi». Non ci sono solo effetti negativi, però. Se l’export rischia, un’uscita definitiva della Gran Bretagna dalla Ue potrebbe portare – come già sta avvenendo – a una fuga massiccia di multinazionali da Londra. E questo, secondo il Csc, potrebbe tradursi anche «in un’opportunità per altri paesi europei, Italia compresa». Il Centro studi di Confindustria stima che «per l’Italia gli investimenti diretti esteri potenziali extra potrebbero generare un aumento del Pil di 5,9 miliardi annui, ovvero lo 0,4%; ciò non è comunque compensativo di rischi ed effetti negativi legati alla Brexit».

I settori più colpiti dell’export made in Italy
Il comparto del Made in Italy più colpito dalla Brexit sarebbe quello delle “Bevande, vini e bevande spiritose”. In base a un’analisi del Csc il Regno Unito attrae circa il 12% dell’export italiano complessivo da questo settore, pari a 1,1 miliardi di dollari nel 2017. Inoltre, se si applicassero i regolamenti tariffari tra Ue e resto del mondo, le bevande sarebbero tra i beni sottoposti a barriere tariffarie più elevate (nell’ordine del 19%). Lo studio considera che nel 2017 l’export Made in Italy verso il mercato britannico ammontava a 23,1 miliardi e nel periodo 2012-2017 il Regno Unito ha coperto una quota media annua di oltre il 5% dell’export italiano nel mondo.

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Anche il comparto “Agrifood” è a rischio: nel 2017 la Gran Bretagna ha importato prodotti agro-alimentari per un valore di 2,6 miliardi di dollari e nei sei anni 2012-2017 ha rappresentato una quota media annua del 7,8%. In questo caso oltre alle elevate barriere tariffarie (con un picco del 35% per i latticini) e al possibile cambiamento del quadro regolamentare, si temono ripercussioni di un eventuale allungamento dei tempi di sdoganamento delle merci, che risulterebbe cruciale per alcuni prodotti freschi.

L’Italia non è pronta a cogliere le opportunità
Sul fronte delle eventuali opportunità, legate ad una «riallocazione, almeno parziale, degli investimenti diretti esteri» di cui beneficia oggi l’economia del Regno Unito, il Centro studi Confindustria avverte: «Le opportunità che si sono presentate e si stanno presentando in corrispondenza di un avvenimento così epocale come la Brexit trovano però l’Italia impreparata a coglierle per ragioni di ordine strutturale e istituzionale».

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Sul fronte strutturale «l’Italia soffre uno svantaggio competitivo nel settore dei servizi finanziari rispetto ad altri paesi in Europa, quali per esempio, Paesi Bassi, Germania e Francia, che peraltro godono anche di una posizione geografica più centrale per servire il resto dei paesi membri». Tra le ragioni istituzionali «va annoverato che l’Italia, insieme al Regno Unito, è diventato il secondo paese tra i più critici rispetto all’attuale architettura istituzionale dell’Unione, con una maggioranza di governo che a tratti non ha esitato a porsi in modo antagonista rispetto alla Commissione
europea, soprattutto durante le negoziazioni legate all’approvazione della Legge di bilancio».

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