fra scandalo e avvocati

Perché il presidente Trump ha paura della pornostar Stormy Daniels

di Angela Manganaro

Stormy Daniels ai Grammy nel 2007, un anno dopo aver conosciuto Donald Trump

5' di lettura

Donald Trump e Stormy Daniels si incontrano in un resort fra la California e il Nevada nel 2006. Lei ha 27 anni, è nata a Baton Rouge in Louisiana, puro Sud, è cresciuta con una madre sola in una casa in cui a volte mancava la luce. Lui ne ha 60, è un milionario e aspetta dalla terza moglie Melania il suo quinto figlio Barron che nasce il 20 marzo di quell’anno.

Dal 2003 Trump non fa solo palazzi e bancarotte, scrive e conduce The Apprentice, reality show di un certo successo. Dal 2004 Stormy, vero nome Stephanie Clifford, non è solo attrice porno, scrive e dirige quelli che giornali come Wall Street Journal definiscono «film per adulti». È proprio il quotidiano finanziario di New York, conservatore e da sempre meno critico con l’amministrazione Trump che il 12 gennaio scorso riporta alla luce Stormy. Scrive che nell’ottobre 2016, in piena campagna elettorale per la presidenza, Michael Cohen, avvocato di Donald Trump, versa alla pornostar 130mila dollari per il suo silenzio. La donna deve tacere quell’incontro, firma un accordo (nondisclosure agreement) con cui promette di non rivelare quella notte di sesso occasionale con il futuro presidente degli Stati Uniti. Il patto ha retto fino a tre mesi fa. Ora non si fa che parlare di Stormy; domenica scorsa 22 milioni di americani l’hanno vista in tv, alla Cbs, raccontare la sua versione.

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Fra i milioni, scrive il Washington Post, pare vi fosse anche il presidente Trump che avrebbe chiesto impressioni al suo staff, detto che la storia è una bufala, osservato che Stormy non è il tipo di donna che trova attraente, concluso che la sua accusatrice non è apparsa credibile.

Stormy Daniels - nome d’arte ispirato alla figlia del bassista dei Mötley Crüe, gruppo heavy metal degli anni 80, e dal whisky Jack perché «preferito da quelli del Sud» - ha comunque sfiorato uno share che non si vedeva dai tempi del primo Obama. Su «60 Minutes» non è più la gioiosa ventenne con le ironiche tette da film di Russ Meyer che Trump ha conosciuto più di dieci anni fa. O meglio il seno c’è ancora, testimonia la camicetta color aragosta che resta chiusa a fatica, ma il volto è ora quello di una matura donna americana che racconta una notte non entusiasmante, sesso non protetto fra due adulti consenzienti. L’intervistata guarda sempre seria Anderson Cooper, l’intervistatore che sembra uscito da Star Trek, e afferma: «Quella notte non ho detto no, io non sono una vittima».

Stormy Daniels durante l’intervista con Anderson Cooper in onda domenica scorsa su “60 Minutes”

Stormy insomma non ha niente a che fare con il movimento #MeToo, non grida alla molestia né onestamente la si immagina eroina democratica anche perché è repubblicana: nel 2010 voleva presentarsi al Senato con il Gop e aveva pensato proprio a Trump come possibile finanziatore ma poi ha lasciato perdere quando ha capito che nessuno la prendeva sul serio. L’anno dopo nel 2011, diventa madre di una bambina e questa adesso sembra la sua principale preoccupazione. Sostiene Stormy-Stephanie in tv che sette anni fa, la bambina era quindi neonata, è stata avvicinata in un parcheggio a Las Vegas da un uomo che l’ha minacciata: «Un ragazzo si è avvicinato e mi ha detto “lascia stare Trump. Dimentica questa storia”. Poi si è chinato su mia figlia, l’ha guardata e ha detto: “è una bella ragazzina, sarebbe un peccato se capitasse qualcosa alla sua mamma”. Poi è andato via».

Naturalmente è tutto da dimostrare un legame fra Trump e l’uomo del parcheggio ammesso che l’ episodio sia accaduto davvero ma la tempesta Stormy soffia eccome. Non tanto per la reputazione del presidente: Trump non ne ha nessuna in tema di donne, quando si è candidato gli americani lo conoscevano e lo hanno votato lo stesso, inutile sottolineare false contraddizioni: nell’Ohio che ora discute di vietare qualsiasi tipo di aborto come fosse la Polonia, si può ancora votare Trump e voltarsi tranquillamente dall’altra parte davanti a una storia di letto.

Se e quanto gli americani siano ancora puritani rispetto ai tempi di Clinton e Monica Lewinsky, non si può certo misurare con la condotta sessuale di The Donald. C’è però il clamore mediatico. In una raffinata analisi l’Economist scrive che Stormy Daniels è riuscita in una rara tripletta propria dei grandi performer: ha fatto parodia prendendo in giro un uomo più brillante di lei, ha fatto satira prendendo in giro un uomo più ricco di lei, e ha fatto burlesque prendendosi gioco di entrambi togliendosi i vestiti. Nel tour promozionale in corso, fra uno strip club della Florida e uno del Texas, sta ridicolizzando il presidente degli Stati Uniti come niente e nessuno prima di lei, esibendosi davanti a quegli americani che probabilmente lo hanno votato in massa.

Ma è questo che vuole Stormy, ex ragazza del Sud senza arte né parte che su Twitter fa educatamente notare a chi col solito acume da tifoso sul web la chiama “troia” che sì in effetti, questo è? («Sì! Amo il tuo entusiasmo», è il post con cui risponde all’insulto). All’alba dei quarant’anni, Stephanie Clifford vuole essere riconosciuta come la grande artista della Stangata alla Casa Bianca?

Con la moralità tipica di chi non ne ha mai praticata nessuna, la protagonista del momento sempre composta davanti alla telecamera sembra avere altro in mente. Una conferma arriva oggi, e i due quotidiani finanziari, Wall Street Journal e Financial Times, danno rilievo alla notizia. L’avvocato di Daniels, Michael Avenatti - ci sono sempre tanti italoamericani nelle storie Trump, e come al cinema sono sempre personaggi azzeccati - annuncia che la signora Clifford ha querelato per diffamazione Michael Cohen, l’avvocato del presidente. Avenatti, mascella decisa almeno quanto il seno di Stormy, sostiene che Trump non twitta nulla sulla vicenda perché la storia è vera al 100 per cento.

La pornostar ha citato in giudizio Cohen perché le ha dato della bugiarda quando afferma di aver avuto un rapporto sessuale col presidente. Così adesso davanti alla corte federale di Los Angeles devono rispondere in due, Trump e il suo avvocato. Clifford spera in tribunale di liberarsi di quel nonclosure agreement che adesso le sta economicamente stretto: vuole restituire i 130mila dollari che ha ricevuto un anno e mezzo fa in cambio della libertà di poter dire quello che vuole sulla notte col presidente. Vuole anche scongiurare la possibilità di pagare 20 milioni di dollari di danni chiesti da Cohen per violazione dello stesso accordo che finora l’ha obbligata al silenzio rotto dall’articolo del Wall Street Journal. Accordo firmato, dice lei ora, perché temeva per la sicurezza sua e della figlia memore della minaccia ricevuta nel parcheggio sette anni fa.

La cosa giuridicamente più interessante è che Trump non ha firmato nulla, non è parte dell’accordo che vincola Daniels e Cohen definisce «transazione privata». Certo è che più la storia rimane nei tribunali, più Trump rischia. Non solo perché i media potranno stargli comodamente addosso ma perché - e questo è il vero rischio con le elezioni di metà mandato a novembre - Stormy non ha nulla da perdere e potrebbe costringere il presidente ad andare in udienza e testimoniare. Cosa succederà in quel caso si può solo immaginare.

Viene in mente la battuta di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, film che, si è detto, racconta l’America di Trump, i forgotten men and women. «Se non ci sono più i pubblicitari e gli avvocati all’America cosa resta?» chiede sconsolata Frances McDormand. Sia la povera Stephanie della Louisiana sia il ricco Donald di New York hanno sempre saputo vendersi con ovvie diverse fortune. Ora - America purissima - è il momento degli avvocati.

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