dopo il tweet di trump

Truppe Usa via dalla Siria? Tutte le conseguenze sul Medio Oriente

di Roberto Bongiorni

Curdi prendono roccaforte Isis in Siria

3' di lettura

«Abbiamo sconfitto l'Isis in Siria. Era la mia unica ragione per restare lì». Ricorrendo al consueto tweet, il presidente americano Donald Trump ha annunciato ieri, anche se indirettamente, quello che potrebbe essere uno storico ritiro delle – poche - truppe americane presenti in Siria. L'emittente televisiva Cbs ha precisato di essere stato informata che la Casa Bianca avrebbe già ordinato al Pentagono di iniziare la pianificazione per un ritiro immediato. Secondo altri media americani, i funzionari dell'Amministrazione Trump avrebbero già iniziato a informare i partner regionali presenti in Siria. Un piano che, tuttavia, non convince il Pentagono, preoccupato per quello che potrebbe accadere successivamente. Il ritiro completo delle truppe americane rischia infatti di avere delle serie ripercussioni sullo scacchiere geopolitico del Medio Oriente. E sugli assetti della Siria in particolare.

L'offensiva turca
Oltre all'Isis (che peraltro non è stato interamente sconfitto), a contribuire in modo sostanziale al ritiro americano sarebbe una sorta di accordo (forse informale) con la Turchia, che si preparerebbe a lanciare la terza offensiva militare in meno di due anni e mezzo contro i territori siriani controllati dai curdi. Da anni il presidente Recep Tayyip Erdogan ha aspramente criticato, ricorrendo in alcune circostanze con toni molto forti, la presenza (ed il sostegno) delle truppe americane a fianco delle milizie curde, le Ypg, impegnate nella guerra contro l'Isis. Agli occhi di Ankara, le milizie curdo siriane altro non sono altro che una costola del movimento secessionista curdo Pkk (nella lista delle organizzazioni terroristiche di diversi paesi). Le due precedenti campagne militari turche nel nord della Siria (agosto 2017 e gennaio 2018), rispondevano all'obiettivo di spazzare via la presenza delle Ypg (definite sempre terroristi da Erdogan) dai territori della Siria settentrionale vicini alla frontiera.

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Consegnare la Siria ad Iran e Turchia
Per quanto sia composta solo da 2mila soldati - dispiegati quasi tutti nella città nord-occidentale di Manbij - la presenza americana nella Siria nord orientale ha finora rivestito un'importanza strategica nei precari equilibri regionali. Per una serie di ragioni. Innanzitutto fungeva da contraltare all'espansione iraniana. Le milizie filo iraniane, e quelle direttamente inviate da Teheran per affiancare l'esercito del presidente siriano Bashar al-Assad, hanno sempre guardato alla Siria nord Orientale come ad un territorio strategico in cui estendere l'influenza di Teheran. In secondo luogo abbandonare la Siria, significa sancire ufficialmente il ruolo della Russia come unica grande potenza mediatrice (in verità già lo era) , capace di determinare senza troppe resistenze il destino di questo Paese lacerato da un conflitto arrivato al settimo anno.

Senza la presenza americana, le milizie curde si trovano tra l'incudine (la Turchia a nord) e il martello (l'esercito siriano a sud ed a occidente). Entrambi determinati, seppure per ragioni differenti, a ridimensionare la presenza curda e ad impedire che vengano gettate le basi per la creazione di un'enclave curda quasi indipendente (i curdi siriani tuttavia non hanno mai parlato di secessione). Insomma, con il sanguigno pragmatismo che lo ha sempre contraddistinto, Trump sembra aver scelto la Turchia, Paese che dispone del secondo esercito della Nato, a spese dei curdi. Proprio le Ypg si erano rivelate gli indispensabili scarponi sul terreno utilizzati con successo dalla coalizione internazionale contro l'Isis guidata dagli Usa.

Ma l'Isis è sconfitto?
Nonostante i proclami di Trump, l'Isis non è sconfitto. Non ancora. Un recente rapporto americano segnalava la presenza di oltre 10mila combattenti sparsi in Siria (cifra forse esagerato). Un numero sufficiente che consentirebbe loro di portare avanti una guerriglia strisciante per ricostruire il network jihadista.
È vero l'Isis è ormai confinato in alcuni tratti della valle dell'Eufrate a ridosso dell'Iraq, nel distretto di Hajin. Di fatto ha perso il 90% del territorio. Ma Iraq, Afghanistan, Somalia e altri teatri di guerra hanno insegnato che sconfiggere militarmente un movimento estremista islamico e poi andarsene subito dal territorio “liberato” significa correre un grande rischio. Solo nella zona intorno a Hajin, da alcune settimane investita da una pesante offensiva delle forze curdo-siriane (che avrebbero preso la cittadina), rimarrebbero fino a 5mila miliziani dell'Isis. La guerra non è dunque ancora vinta. Ecco perché il Pentagono non sembra gradire un ritiro immediate delle truppe americane. Lo scorso sei dicembre il segretario dalla Difesa, Jim Mattis, lo ha fatto capire bene: «C'è ancora del lavoro da fare». Una posizione condivisa da Israele. Gerusalemme ha sempre considerato la presenza americana in Siria come un fattore chiave per contrastare la presenza delle milizie dell'Iran e dei loro alleati sciiti libanesi, gli Hezbollah. E la Siria condivide con Israele un confine particolarmente caldo.

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