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«America First». Dall’Afghanistan al Venezuela, Trump unifica la sua politica estera

di Marco Valsania

Svolta in Afghanistan, prima intesa tra Usa e talebani

6' di lettura

New York - Ritiro dall’Afghanistan e dalla Siria. Dure prese di posizione sul Venezuela. Donald Trump ha moltiplicato le mosse sullo scacchiere internazionale agli inizi del 2019. All'apparenza contraddittorie: disimpegno da un lato; offensive dall'altro. Ma non è detto che accuse di imprevedibilità o confusione siano oggi pertinenti: a innervosire numerosi esperti e critici americani di Trump è piuttosto il sospetto di una progressiva unificazione della sua politica estera dopo i primi due anni contrastati alla Casa Bianca, quando ai suoi istinti di America First si contrapponevano quelli dei globalisti presenti nella sua cerchia di consiglieri. Adesso, purgati quegli esponenti globalisti, il sospetto è che si stia affermando una politica in realtà coerente: in tutto e per tutto “transactional”, caratterizzata dall'opportunità di strappare vantaggi immediati da amici o nemici. Guidata da urgenze di politica interna - America First - e da sacrifici del multilateralismo e delle alleanze che hanno fatto da pilastro dell’Occidente.
I segni di continue tensioni non mancano, ma potrebbero essere residui. Solo ieri i capi dell’intelligence americana parlando al Congresso hanno offerto una valutazione annuale dei rischi alla sicurezza nazionale lontana da quella di Trump: hanno messo in guardia, parole del direttore della National Intelligence Daniel Coats, da un crescente allineamento tra Mosca (quel Vladimir Putin con cui Trump continua a flirtare) e Pechino nella corsa alla superiorità tech e militare. E poi hanno ammonito sulla minaccia ancora presentata dallo Stato Islamico dichiarato debellato dal Presidente; hanno espresso forte scetticismo sulle intenzioni di disarmo nucleare della Corea del Nord con cui Trump si appresta a organizzare un secondo summit; hanno minimizzato il pericolo iraniano affermando che non sta costruendo ordigni nucleari e ad oggi rispetta quell’accordo internazionale strappato proprio dalla Casa Bianca come inefficace.

L'Afghanistan potrebbe emergere come caso esemplare della nuova politica estera. Mostra il “ritiro” voluto dalle responsabilità internazionali. La Casa Bianca ha fatto balenare la fine di una lunga e costosa guerra, cominciata nel 2001 e parsa ormai, 17 anni dopo, impossibile da vincere. La più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, piu del Vietnam (almeno della fase di guerra guerreggiata) e delle prima, seconda e guerra di Core messe assieme. E la più costosa dalla seconda Guerra mondiale, oltre mille miliardi di dollari secondo la maggior parte delle stime (e secondo alcuni altri di più), con picchi di oltre cento miliardi di dollari l'anno e ancora oggi da 45 miliardi ogni dodici mesi. Senza contare gli oltre duemila soldati americani morti e oltre 20.000 feriti, accanto alle molte migliaia di civili afgani. La fine di quel conflitto è in realtà un obiettivo da tempo cercato dalle amministrazioni americane, che può essere condiviso anche dall'establishment tradizionale dei globalisti.
Sono le modalità ora decise da Trump - che riflettono la sua impazienza - a far pero' discutere. Non è chiaro quale patto sia stato raggiunto o possa essere raggiunto con ulteriori negoziati con i Talebani, come questi dovrebbero garantire la cacciata di Al Qaeda, Isis e delle loro ramificazioni oggi presenti sul territorio del Paese sotto il loro controllo. Trump ha inoltre minato la posizione negoziale americana annunciando già nelle passate settimane l'intenzione di ritirare comunque met delle truppe statunitensi, da 14.000 a settemila, un annuncio non a caso seguito da nuovi attentati locali. Un'affrettata uscita di scena occidentale minaccia inoltre di rimettere in discussione quei progressi che pure ci sono stati nel Paese, dai diritti delle donne all'istruzione.

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Anche l'”interventismo” in Venezuela, dove la Casa Bianca ha stretto i cordoni di sanzioni e adombrato persino azioni militari, fa discutere. Può sembrare l'altra faccia della medaglia, esempio di una Casa Bianca impegnata a fianco di alleati contro un regime repressivo e corrotto. Il contrasto con l'ispirazione da America First potrebbe però essere men che drastico. L'azione americana non appare legata a una più ampia strategia di democratizzazione e riscoperta di valori e vocazioni internazionali - vale la pena ricordare che Nicolas Maduro è uno dei pochi dittatori o uomini forti nel mirino di Trump. Piuttosto sembra dipendere dal fatto che il Venezuela (in una nuova declinazione della dottrina Monroe) può esser considerato parte del “cortile di casa”. Nonchè dal collegamento che la Casa Bianca fa tra il regime di Caracas e il suo inviso alleato cubano, con un occhio rivolto cioè all'interno - alle fasce più conservatrici della comunità di esuli dell’Avana in Florida e altrove che fanno parte della base del partito repubblicano.

Una voce troppo grossa statunitense, in un’America Latina con una lunga storia di abusi e statunitensi, potrebbe oltretutto rivelarsi controproducente per il futuro del Venezuela e il pericolo di gravi esplosioni di violenza. «Un gioco pericoloso», l’ha definito un commento comparso sulle pagine del Washington Post. Tanto più che portavoce della politica dell’amministrazione sul Venezuela sono diventati due falchi con problemi di credibilità diplomatica quali il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e il neoinviato speciale Elliott Abrams, negli anni Ottanta finito al centro di scandali e coperture di massacri in centroamerica.
Scrivendo su Foreign Affairs, Thomas Wright, direttore Center of United States and Europe e senior fellow del Project on International Order and Strategy alla Brookings Institution, ha attaccato questa strategia che ritiene ormai “unificata” e più “prevedibile” della seconda meta' del mandato presidenziale di Trump come “senza amici, ne' nemici permanenti”. Wright ha indicato che “per la prima volta è possibile identificare una sola politica estera”, fatta di una “ristretta relazione transazionale con altre nazioni, una preferenza per governi autoritari sulle democrazie, un approccio mercantilistico alla politica economica internazionale, un generale mancato riguardo per diritti umani e rispetto della legge e promozione di nazionalismo e unilateralismo alle spese del multilateralismo”.
Aggiunge che “paradossalmente questo potra' indebolire l'influenza americana e destabilizzare l'ordine internazionale. Un'amministrazione Trump divisa era l'opzione migliore…”. Interpellato sugli ultimi sviluppi su Venezuela e Afghanistan, Wright spiega che “la regione latinoamericana e' sempre stata una sorta di eccezione nella politica estera americana”. E che sull'Afghanistan non e' ottimista su possibilità di veri successi dei negoziati.

Quello di Trump, a conti fatti, è un atteggiamento che se si sta affermando come mai prima non sorprende. Si accoppia con gli istinti radicati del Presidente, sottolinea Wright, prima ancora che fosse eletto. “Il rigetto delle alleanze di sicurezza degli Stati Uniti come ingiuste per i contribuenti americani, il rifiuto di grandi accordi commerciali in nome dell'eliminazione di deficit nell'interscambio voti come una minaccia all'interesse nazionale, l'ammirazione per gli uomini forti”. Questi ultimi gli appaiono oltretutto piu' adatti a rispondere alla sua politica “transactional”, a poter promettere rapide concessioni e accordi senza le lungaggini e complicazioni di partner democratici.

Nelle ultime ore, a indicazione della potenziale continua ascesa di unilateralismo e isolazionismo, e' salita alla ribalta anche la potenziale candidatura di David Malpass, sottosegretario al Tesoro, alla guida della Banca Mondiale. Malpass e' considerato uno scettico del ruolo dell'organizzazione multilaterale ed e' stato un duro critico della Cina, finito ai ferri corti anche con il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin.

Ma è la costante polemica sull'alleanza strategica per eccellenza, la Nato stessa, ad assurgere piu' di altro a sintomo e simbolo dell'atteggiamento di Trump verso alleati tradizionali oggi considerati invece scomodi. Stando a recenti rivelazioni del New York Times, piu' volte nei mesi scorsi il Presidente ha fatto presente di essere disposto a lasciare il Patto Atlantico, rintuzzato dall'ala globalità finche' era presente nell'amministrazione. Un summit a Washington in aprile per celebrare i 70 anni dell'Alleanza e' stato declassato a vertice di ministri degli Esteri per evitare imbarazzi e divisioni tra capi di stato. La preoccupazione che filtra dagli stessi ambienti politici statunitensi si e' manifestata in manovre al Congresso per rendere molto difficile a Trump una simile decisione, introducendo sbarramenti all'accesso a fondi necessari per un'uscita dalla Nato e riaffermandola la validità.

L’affermazione della politica estera di Trump ha avuto di recente un’altra tappa significativa in Medio Oriente. In un discorso al Cairo il Segretario di Stato Mike Pompeo è parso più interessato a condannare la politica della precedente amministrazione di Barack Obama che ad affrontare crisi e problemi della regione: ha denunciato Obama perché avrebbe ammesso, in un noto discorso nella stessa città egiziana nel 2009 intitolato “Un Nuovo Inizio”, l'eredità storica non sempre positiva degli americani nell'area.
Gli ha contrapposto un Trump che difenderà sempre l'America come «forza per il bene in Medio Oriente». Una posizione che agli osservatori è parsa sia travisare il messaggio di dialogo e leadership di Obama che oscurare il desiderio di Trump di disimpegno, ignorando le debacle di governance, corruzione, repressione, povertà e ingiustizia nella regione per celebrarne i suoi discutibili regimi purché leali alla sua Casa Bianca.
Pompeo e il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton, falco neocon oggi super-fedele a Trump, non appaiono a molti avere la volonta', la statura e l'indipendenza per imbrigliare o spuntare gli artigli di America First di Trump. La domanda che si pone sempre più apertamente negli ambienti dei Washington riguarda cosi' oggi non la necessità di chiarire la politica estera di Trump, ma piuttosto quella di esaminare quanto sara' pesante il suo lascito. L'ha posta senza mezzi termini James Traub, del Center on International Cooperation: «Avrà alterato tanto la realtà pre-esistente da costituire una nuova e intransigente realtà?».

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