ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùLa situazione nella piana di Gioia Tauro

Migranti, viaggio a San Ferdinando dove la tendopoli non è la soluzione

Vivono come in un ghetto, in povertà e in miseria. La maggior parte sono in attesa del permesso di soggiorno, lavorano nei campi, per lo più in nero

di Donata Marrazzo

La tendopoli di San Ferdinando

4' di lettura

Per capire se la soluzione al problema della gestione dei flussi dei migranti - accoglienza, contenimento, respingimento, espulsione - è una tendopoli, basta andare a San Ferdinando, nell’area industriale che lambisce il porto di Gioia Tauro e il comune di Rosarno, dove, in un accampamento del ministero dell’Interno, vivono in condizioni di estremo degrado i migranti che lavorano come braccianti stagionali. Oggi sono circa 300, ma negli scorsi anni si sono toccate punte di 2mila persone. Anche donne, soprattutto nigeriane, vittime di tratta.

Dentro la tendopoli di San Ferdinando

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Nella tendopoli di San Ferdinando

Mentre su tutto il territorio nazionale il governo requisisce aree dismesse, campi da calcio ed ex caserme, e, fra le proteste di sindaci e governatori, già sorgono i primi insediamenti per ospitare chi arriva in Italia illegalmente, a San Ferdinando i migranti, la maggior parte in attesa del permesso di soggiorno, conducono la loro esistenza come in un ghetto. Lavorando nei campi, per lo più in nero (nella Piana di Gioia Tauro il settore agrumicolo conta oltre 5mile aziende) e vivendo in povertà e in miseria.

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Lavoro nero in agricoltura

I braccianti africani di San Ferdinando si muovono in bicicletta o attendono all’alba i camion dei caporali. I 48 euro al giorno previsti dal contratto di lavoro occasionale agricolo sono un miraggio. «E così difficilmente maturano il diritto alla disoccupazione», spiega Nicola Rodi, segretario generale della Flai Cgil per l’Area Metropolitana di Reggio Calabria, che segue le sorti degli stagionali che arrivano dall’Africa subsahariana, la correttezza delle loro buste paga e del loro contratto, quando viene applicato. E anche i loro spostamenti in altre regioni: «Finito il periodo della raccolta in Calabria, molti si trasferiscono in Puglia, nel Lazio, nel Veneto. E di tanti si perdono le tracce». Con altri sindacalisti, Rodi ha anche organizzato diversi presidi contro i mediatori illegali di manodopera, ma tutto è rimasto più o meno com’era.

Avviare percorsi di emancipazione

La Cisl da anni parla della tendopoli di San Ferdinando come di «una terra di nessuno, in cui persino lo Stato fa mancare i suoi presidi. Si tratta di un ghetto senza regole, senza sicurezza né igiene né condizioni minime di vivibilità». Il segretario generale di Fai Cisl Reggio Calabria Nino Zema sottolinea inoltre che «è necessario che istituzioni e associazioni facciano rete, per avviare percorsi di emancipazione, riconoscendo gli abitanti del ghetto come persone e consentendo loro, magari gradatamente, di uscire da quel luogo per inserirsi come lavoratori nel territorio. Del resto sono loro che fanno arrivare sulle nostre tavole le eccellenze calabresi»

Il degrado e l’infiltrazione della criminalità

All’interno della tendopoli della Piana di Gioia Tauro, come pure nel vicino campo container di Rosarno, le condizioni igieniche non sono nemmeno minime, a terra un pantano, i bagni fatiscenti e l’acqua a singhiozzo: quando c’è, qualcuno di loro la riscalda dentro dei fusti e poi la vende. In piccoli empori improvvisati si trova il necessario che serve a chi vive miseramente, un materasso, un fornello, una bici. La criminalità si infiltra, tra spaccio di droga e prostituzione, nonostante i presidi delle forze dell’ordine e la presenza dei vigili del fuoco: lì un incendio divampa in un attimo, com’è stato nel 2017 e anche l’anno dopo, quando tra le fiamme morì la giovane nigeriana Becky Moses, costretta dalla normativa di allora – l’espulsione dopo il doppio diniego alla richiesta d’asilo, stabilito dal decreto Minniti-Orlando - a lasciare il borgo dell’accoglienza di Riace.

Tendopoli di San Ferdinando subito dopo l’incendio del 2018 (foto Francesco Mollo)

Le ruspe del ministro Matteo Salvini

Furono proprio quelle fiamme che carbonizzarono corpi, tende e baracche a spingere Matteo Salvini, che al tempo era ministro dell’Interno, a bonificare l’area con le ruspe e reparti in tenuta antisommossa. Il risultato fu la creazione di una grande discarica, fatta di detriti, lamiere, stracci, e di una nuova tendopoli allestita dal ministero 100 metri più in Là. Che ora è una favelas: rifiuti accumulati, cani randagi e alcuni uomini malati o storditi da alcol e stupefacenti.«Prima l’insediamento era gestito dalla Caritas – spiega Nino Quaranta, della cooperativa “Della Terra, una contadinanza necessaria”, calabrese laureato in Lettere all’università di Milano, tornato per scelta a lavorare nei campi – adesso, com’è evidente, qui non c’è più nessuno a sorvegliare né a offrire servizi». Con lui c’è Lamine, un ragazzo del Mali: è passato dalle carceri libiche, ne porta ancora i segni, e ha attraversato il mare. Ma ora ha un contratto e una paga regolare e una casa vera al centro di San Ferdinando. Ha 25 anni e dice, sorridendo, che vuole sposarsi e portare la moglie in Italia.

I ghetti prima e dopo la rivolta di Rosarno

«Questa situazione di degrado, sfruttamento e disumanità perdura da quasi 15 anni – racconta l’attivista per i diritti umani Enzo Infantino – da prima della ben nota rivolta di Rosarno del 2010». Infantino allude a un episodio che ha segnato profondamente il territorio: a seguito del ferimento con colpi di arma da fuoco di alcuni migranti da parte di persone del posto, gli extracomunitari reagirono mettendo a ferro e fuoco la cittadina. «Prima di allora i braccianti stagionali vivevano nascosti in una vecchia cartiera e in alcuni capannoni industriali abbandonati, ma dopo quei fatti nacque spontaneamente la tendopoli, anzi la baraccopoli di San Ferdinando. E a Rosarno un campo container della Protezione Civile».

Nella piana di Gioia Tauro la “Casa della dignità” della Federazione delle Chiese evangeliche

Dambe So, la casa della dignità

Smontata, spostata, più volte rimontata, la tendopoli di San Ferdinando è ancora lì. E dimostra che di per sé non è una soluzione. Che invece ha trovato la Federazione delle chiese evangeliche con il programma Mediterranean Hope per il sostegno, l’informazione, la mediazione e il supporto ai lavoratori braccianti impiegati nella Piana di Gioia Tauro. In collaborazione con l’associazione Sos Rosarno e la cooperativa Mani e Terra ha creato un ostello sociale chiamato “Dambe So” , che in lingua bambarà significa “Casa della dignità”, restituendo la dignità negata e la legalità ai lavoratori immigrati e stagionali della Piana. Che ora, tra l’altro, grazie all’assistenza della Chiesa Valdese, hanno bici con fanali e giacche a vento con catarifrangenti per non essere più vittime di incidenti stradali.


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