dal nostro inviato Riccardo Barlaam
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GREEN BAY (WISCONSIN) – «America Dairyland's». Anche le targhe delle auto in Wisconsin ricordano che questa per gli americani è la terra dei formaggi. Stato del Midwest, abitato da poco più di cinque milioni di abitanti, adagiato nella regione dei grandi laghi, tra Chicago e Minneapolis, con un clima umido e stagioni estive non troppo calde, ideali per la coltivazione del foraggio e dei cereali e per l’allevamento delle mucche da latte.
Nella bella stagione, come succede in Italia con le Cantine aperte per il vino, qui arrivano i turisti enogastronomici con i viaggi organizzati per visitare le fattorie e i caseifici.
Ogni cinque abitanti in Wisconsin c'è una mucca da latte (sono 1.274.000 per la precisione, dagli ultimi dati dell'associazione dei Dairy Farmer's). Mucche che producono fiumi di latte. Nel 2018 le mucche del Wisconsin hanno prodotto circa 14 miliardi di litri di latte. Il 90% del latte finisce nella produzione di formaggi, oltre 600 varietà. Per un giro d'affari che l'Università del Wisconsin stimava nel 2016 a 43,3 miliardi di dollari.
Per capire le dimensioni del settore lattiero caseario, se fosse uno stato sovrano il Wisconsin sarebbe al quarto posto nel mondo per la quantità di formaggi prodotti, dietro Stati Uniti, Francia, Germania e prima dell'Italia.
Tra i formaggi c'è di tutto, ci sono 1.200 cheesemaker con la licenza. Già il nome delle cittadine accanto a Green Bay dove sono situate gran parte delle aziende agricole e dei caseifici fa capire che molti di questi produttori arrivano dall'Europa: Luxemburg, Denmark, Bellevue, Brussels.
A Denmark, ad esempio, abbiamo visitato un'azienda agricola che coltiva foraggi e cereali e produce latte la Stencil Dairy Farm. Titolare: una donna, la signora Shelley Stencil che gestisce una azienda di medie dimensioni con 1.300 mucche da latte, 23 dipendenti e 5.500 acri di terreno per produrre il foraggio e i cereali.
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L'America è un paese costruito dagli immigrati. E così è anche per i suoi tanti formaggi: non esiste veramente un formaggio solo americano, tutti derivano da altre terre e altre culture. Il cheddar che è una delle decantate specialità locali, con diverse tipologie a seconda della stagionatura, lo hanno portato qui i coloni inglesi e gli irlandesi. Il gouda gli olandesi. Il brie i francesi. La feta i greci. La mozzarella e il parmesan gli italiani.
Negli Stati Uniti, per tipo di formaggio prodotto, la mozzarella ha il 35,1% del mercato, gli altri formaggi italiani il 9,3%, il cheddar ha il 28,3%, e tutti gli altri formaggi, i tedeschi, gli svizzeri, gli olandesi i francesi il 15,9% e gli altri americani (come gli spalmabili industriali) il restante 11,4 per cento.
In realtà quelli che producono formaggi italiani negli Stati Uniti, ma anche in Argentina, un altro paese a forte presenza di immigrati, sono proprio gli italiani. Gente che produceva formaggio in Italia e che nelle terre di emigrazione ha continuato a fare ciò che sapeva fare. Non tutti i formaggi italiani prodotti negli Stati Uniti sono di qualità: soprattutto gli immigrati di prima generazione spesso hanno adattato i prodotti al gusto americano che predilige i sapori forti. Come dire: gli americani pensano per questo motivo che i famigerati spaghetti e meatballs siano un piatto tipicamente italiano. Ma in Italia questo piatto non esiste.
Tuttavia ci sono anche le eccezioni. Errico Auricchio si è trasferito con la famiglia in Wisconsin nel 1979 da Cremona. È uno dei dieci nipoti della famiglia omonima che dalla seconda metà dell'Ottocento produce provolone, prima in Campania e poi a Cremona. Un caso quello degli Auricchio di un'azienda di famiglia e di una produzione di eccellenza, tanto che il cognome è arrivato a identificare un tipo di formaggio. «Avevamo paura dei rapimenti in quel periodo – racconta - era il momento in cui in Parlamento si parlava del sorpasso dei comunisti sulla Democrazia cristiana. Auricchio già esportava da anni provolone negli Stati Uniti. Abbiamo pensato di aprire una filiale qui. Se poi le cose dovessero andare male, si diceva, ci trasferiamo tutti». Gli inizi non sono stati facili. «Iniziammo subito a produrre il provolone in un caseificio affittato. Dopo 8-9 mesi comprammo un primo piccolo caseificio. Producevamo un provolone con il marchio Auricchio Cheese, controllati dalla capogruppo italiana, ma il provolone non bastava a mantenere la società. Il primo anno perdemmo 320mila dollari, il secondo 112mila. Dopo due anni comprammo un secondo caseificio e cominciammo a produrre altri formaggi. Il terzo anno cominciammo a fare profitto. Ricordo ancora il primo utile: 12mila dollari. Da allora siamo sempre stati in positivo e piano piano in quarant'anni abbiamo continuato a crescere».
Nel 1993 Errico decide di vendere la sua quota in Auricchio e fonda la sua società. Rileva un marchio italiano BelGioioso, originariamente della Yomo, da Granarolo, di cui diventa presidente, e oggi in Wisconsin produce formaggi classici italiani, di vario genere, con ottocento dipendenti in otto stabilimenti qui, più un nono stabilimento nello stato di New York. «Con i miei cugini è stato complicato all'inizio. Alla fine sono stati tutti contenti. E ora siamo in ottimi rapporti. L'America ti permette di crescere, ti permette di fare cose che in Italia ci vogliono dieci anni».
BelGioioso Cheese produce 27 diverse varietà di formaggi. I prodotti principali per fatturato sono la mozzarella, il parmesan e il provolone. Ma nel catalogo dell'azienda ci sono anche la burrata, la stracciatella, un gorgonzola dolce che non ha niente da invidiare in sapore a quelli della Valle del Ticino, ma non piace molto agli americani che preferiscono il gorgonzola piccante, utilizzato come formaggio negli hamburger. BelGioioso produce anche una crescenza-stracchino all'altezza di quelle che si trovano in Italia, ma troppo delicata come sapore per gli americani che non la comprano molto, una fontina, il mascarpone, la ricotta e la ricotta salata, oltre a un asiago e a un romano.
BelGioioso non è tra i più grandi produttori di formaggio italiano in Nord America. Il primo è Leprino, immigrato siciliano, in Colorado che ha un'azienda specializzata nella produzione di mozzarella con 4mila dipendenti e che rifornisce con il suo formaggio le grandi catene americane di pizza fast food come Domino's Pizza e Pizza Hut. Altro grande produttore è la famiglia Saputo a Montreal, società quotata – il figlio del fondatore Joey è l'attuale proprietario del Bologna F.C. - che oltre al Canada ha una forte presenza in Australia dove ha acquisito grandi marchi di formaggi. E poi c'è Lactalis, della famiglia Besnier, gruppo francese che controlla Parmalat e che qui negli Stati Uniti, oltre ai formaggi francesi come brie e camembert, produce formaggi italiani: mozzarella, ricotta e mascarpone con il marchio Galbani.
BelGioioso punta tutto sulla qualità e cerca di differenziarsi in questo dagli altri produttori americani. «La qualità costa e non tutti la fanno. Negli Usa il 90% del gradimento di un prodotto lo fa il prezzo. Molti puntano sul volume. Noi cerchiamo di fare il prodotto come deve essere fatto, senza compromessi – dice ancora Auricchio - e il mercato in questi anni ha sempre risposto bene perché anche negli Stati Uniti sta migliorando la cultura legata al cibo». La qualità viene apprezzata anche dagli americani dunque, sempre più sofisticati in tema di usi e consumi alimentari. Ma dipende da 100 cose quando fai il formaggio. A partire dal latte, la materia prima. «C'è un prezzo del latte minimo negli Stati Uniti che è stabilito dal governo federale – racconta Gaetano Auricchio, uno dei tre figli di Errico che è l'executive vice president di BelGioioso – prezzo che ogni mese cambia. Noi chiediamo ai nostri fornitori, come la Stencil Dairy Farm, un latte più ricco in grasso e proteine, migliore per fare il formaggio e per questo paghiamo più del prezzo minimo. La concorrenza è forte. Ma il nostro obiettivo è sempre lo stesso: continuare a fare i formaggi migliori». Per fare i formaggi italiani Auricchio ha portato i casari dall'Italia. Da Cremona sono arrivati quelli specializzati nella produzione di formaggio tipo grana, dalla Campania quelli capaci di fare la mozzarella.
Molti produttori italiani lamentano il fatto che qui vengono “copiati” i formaggi italiani. Ma la battaglia dei produttori italiani è difficile da sostenere negli Stati Uniti dove è riconosciuto il trademark e le Dop, i prodotti con la denominazione di origine protetta dell'Ue non hanno valore. «Per poter usare un marchio negli Stati Uniti ci sono due condizioni da soddisfare: devo essere solo io a usarlo e il marchio non deve confondersi con altri prodotti», racconta Errico Auricchio, che è anche il presidente del C onsortium for common food names, (Ccfn), l'associazione internazionale, con sede a Washington D.C., che si batte per il diritto a utilizzare i nomi comuni dei prodotti alimentari. «Credo che ormai si produca più parmesan all'estero che in Italia. Se pure i produttori di Parmigiano Reggiano volessero, con il latte di Parma e di Reggio Emilia non riuscirebbero a soddisfare tutta la domanda di prodotto che c'è. Una cosa è l'origine: la Mozzarella di Bufala Campana Dop è quella che si produce in Campania e nessuno ha il diritto di produrla se non è lì, ma la mozzarella è un tipo di formaggio. La difficoltà è sul nome comune. Importante è non fare confusione con l'origine. Un altro fattore è il prezzo: per acquistare un pezzo di 450 grammi di Parmigiano Reggiano negli Usa ci vogliono 15 dollari, contro la metà del parmesan americano. Ci sono tanti consumatori che preferiscono il Parmigiano Reggiano, altri che guardano il prezzo e comprano il nostro. Il mercato americano è molto grande e c'è spazio per tutti. Noi d'altronde – conclude Auricchio - non possiamo esportare il nostro formaggio in Europa. Ma sono convinto che se Trump verrà rieletto con altri 4 anni entreremo anche noi in Europa».
Riccardo Barlaam
Caporedattore Economia e Politica Internazionale
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