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Protezione a spese della crescita, la contraddizione del governo

di Sergio Fabbrini

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(ANSA)

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18 febbraio 2019
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4' di lettura

Magari sono cambiati i rapporti di forza tra i due partiti che costituiscono il governo italiano, ma quest’ultimo continua a beneficiare di un consenso maggioritario tra gli elettori. Sono in molti a pensare che il suo sovranismo abbia dunque successo. E così? In realtà, non tutto è oro ciò che riluce. Non solamente perché il governo dovrà fare i conti con un contesto economico che si deteriora giorno dopo giorno, ma anche perché esso è prigioniero di contraddizioni interne che ne vincolano politicamente l’azione. Mi spiego.

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Cominciamo dal partito di maggioranza (i Cinque Stelle). È stato sufficiente il suo ridimensionamento nelle elezioni, tenute domenica scorsa, in una piccola regione italiana (l’Abruzzo) per metterlo in fibrillazione. Dopo tutto, i Cinque Stelle hanno costruito il proprio successo elettorale sulla rivolta populista contro le caste, ma l’opposizione a queste ultime non è sufficiente per dare vita a un partito politico (come hanno spiegato Giovanni Sartori o Arendt Lijphart). Tant’è che, una volta giunti al governo, i Cinque Stelle hanno continuato ad agire come un partito d’opposizione. Un comportamento che ha messo in luce cruciali limiti culturali. I Cinque Stella hanno mostrato di non comprendere come funzioni un’economia di mercato transnazionale. Il loro disinteresse verso la crescita (e i suoi presupposti) ha rivelato una predisposizione anti-industrialista, incompatibile con le esigenze di un Paese moderno.

Si consideri il surreale dibattito sulla Tav, il cui rifiuto è addirittura considerato una questione identitaria per quel partito. Nella legge di bilancio 2019, i Cinque Stelle non hanno spinto per gli investimenti, bensì per la redistribuzione (attraverso il reddito di cittadinanza). Si sono di fatto trasformati in una sorta di lega meridionale. Un partito che, parlando a nome di poveri e disoccupati collocati in gran parte nelle regioni del sud, sembra essere preoccupato di trasferire risorse pubbliche in queste ultime. Nello stesso tempo, essi rifiutano gli equilibri istituzionali che reggono un’economia avanzata, come l’indipendenza (dalla politica) delle istituzioni di vigilanza, senza la quale non si creerebbe la necessaria fiducia per far funzionare impersonalmente il mercato. Bloccare (per ragioni ideologiche, non già tecniche) la nomina del vicedirettore generale di Bankitalia oppure quella dei membri del Consiglio dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni oppure considerare le presidenze dell’Inps o della Consob pure spoglie politiche, tutto ciò ha effetti negativi su quella fiducia. In un Paese esposto alla circolazione dei capitali e delle persone, come può funzionare un approccio simile?

Vediamo la Lega. Qui le cose sembrano andare meglio, visti i successi elettorali che ha conseguito in Abruzzo e che probabilmente conseguirà nelle prossime elezioni regionali ed europee. Dopo tutto, essa si è collocata in una frattura politica più consolidata, quella che oppone le cittadinanze nazionali alle immigrazioni extra-nazionali. Il contrasto all’immigrazione ha costituito il tema politico più mobilitante degli ultimi anni nei Paesi europei. La Lega si è intestata quel contrasto, trasformando l’immigrazione in una minaccia alla stessa identità del Paese. Così, con la bandiera “prima gli italiani”, si è progressivamente trasformata in un partito nazionale. Tuttavia, anche qui, i conti non tornano. Infatti, più la Lega si nazionalizza, più è destinata a entrare in contraddizione con le sue constituencies tradizionali, gli artigiani, commercianti e piccole imprese collocati nelle regioni del nord del Paese. Ceti sociali che spingono per l’autonomismo di queste ultime, in quanto lo ritengono una condizione per avviare la semplificazione amministrativa delle istituzioni pubbliche, con la conseguente riduzione del carico fiscale per gli operatori economici di quei territori. Allo stesso tempo, però, l’autonomismo è considerato una provocazione dagli elettorati del sud che la Lega vorrebbe rappresentare, elettorati che richiedono invece trasferimenti di risorse fiscali per garantire il loro consenso sociale. Se al nord gli elettori chiedono allo stato di ritirarsi (facendo pagare meno tasse), al sud gli elettori chiedono invece che lo stato si espanda (attraverso una maggiore redistribuzione fiscale). Mettere insieme i due elettorati è un bel problema. Un problema che si è cercato di risolvere sottraendo le risorse necessarie per la crescita. Basti vedere la legge di bilancio 2019, che riduce le risorse per Industria 4.0 ma incrementa i vantaggi fiscali per le partite Iva, rendendo vantaggiosa la piccola dimensione rispetto a quella grande. Dopo tutto, se i Cinque Stelle pensano che il mercato sia una macchinazione, la Lega non nasconde il suo pregiudizio negativo nei confronti del big business e più generalmente del capitalismo organizzato (che prevede un ruolo importante per le grandi organizzazioni sindacali). Nel secondo Paese manifatturiero d’Europa, come può funzionare un approccio simile?

Insomma, ciò che unisce i due partiti di governo è molto di più che una semplice convenienza elettorale. Essi esprimono elettorati che, seppure per ragioni diverse, cercano protezione e non già competizione. Naturalmente, una democrazia di mercato deve saper proteggere, non solo innovare. Tuttavia, non si può confondere il contrasto alla povertà (trascurato dai precedenti governi) con la lotta alla disoccupazione. Il primo rientra nelle politiche di assistenza (affidate ai comuni), la seconda nelle politiche attive del lavoro (affidate alle imprese e ai sindacati, con la regia pubblica, ma che richiedono soprattutto investimenti e crescita). Né si può confondere, ai fini pensionistici, chi fa lavori usuranti (e quindi deve beneficiare di un regime preferenziale) e chi invece fa lavori che usuranti non sono. Queste distinzioni sono sparite dall’orizzonte del governo. E soprattutto è assente da quel governo l’idea che un Paese che non cresce, non può proteggere. Contrapponendo la protezione alla crescita, il governo si è infilato in una contraddizione difficile da sciogliere. Ecco perché non scambierei per oro la luce dei sondaggi che certificano (per ora) il consenso nei suoi confronti.

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