di Valerio Castronovo
(AFP)
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Sono passati novant’anni dal crollo di Wall Street (avvenuto fra il 24 e il 29 ottobre del 1929) che travolse il mondo finanziario e si abbattè violentemente sull’economia americana, e i cui contraccolpi si propagarono poi nei principali Paesi europei. Al punto da far vacillare le fondamenta del sistema capitalistico e da diffondere in Occidente la sensazione che il sistema collettivista, avviato in Russia all’indomani della Rivoluzione d’ottobre del 1917, all’insegna della dottrina marxista-leninista, avrebbe finito prima o poi per prendere il sopravvento.
Da allora, più volte, l’ipotesi che questa prospettiva si avverasse ha continuato a essere oggetto non solo di analisi in sede storiografica, ma ha costituito anche uno dei temi ricorrenti del dibattito politico sino all’estinzione nel 1991 del “socialismo reale” di marca sovietica. D’altro canto, i “gloriosi trent’anni” successivi al secondo dopoguerra, segnati dalla dottrina keynesiana e dal passaggio a un sistema di mercato regolato in sintonia con la stabilità economica e l’avvento dello “Stato sociale”, hanno portato numerosi opinionisti a ritenere che quel periodo abbia rappresentato, con alcune varianti, il punto d’arrivo e il corollario dell’interventismo pubblico degli anni Trenta.
In realtà, neppure negli Stati Uniti del New deal rooseveltiano, si era manifestata l’idea che le misure assunte dal governo federale per venire a capo della Grande depressione avrebbero potuto costituire il preludio di una svolta economica radicale e di un welfare state. Né i provvedimenti patrocinati e sostenuti con risolutezza dal presidente democratico americano e dal suo brain trust, per arginare la caduta della produzione e dei consumi e promuoverne il rilancio, s’ispirarono al teorema macroeconomico eterodosso enunciato nel 1936 da John Maynard Keynes, in quanto esse corrisposero piuttosto a una visione politica caratterizzata da una forte impronta progressista nonché da una strategia volta a rafforzare i poteri e le funzioni della Casa Bianca nei rapporti con il Congresso.
Del resto, l’intervento dello Stato, per rivitalizzare l’economia e debellare la disoccupazione, scongiurando la disgregazione del sistema produttivo e dell’assetto sociale, venne declinato e attuato in varie forme e dimensioni in quasi tutti i Paesi europei e nell’ambito di regimi politici assai differenti fra loro: tant’è furono, in pratica, l’Italia fascista e la Germania nazista a primeggiare in Europa per lo spessore e l’incidenza che assunse, nel quadro di un ordinamento totalitario, la commistione fra interventismo dello Stato e dirigismo economico.
Ma se oggi c’è più di un motivo per tornare a riflettere sulla Grande crisi del 1929 e i suoi risvolti, lo si deve al fatto che essa sfociò in una diffusione a largo raggio del protezionismo, in una concatenazione di sbarramenti doganali all’importazione di merci e in una sequenza di rincari delle materie prime, nella sospensione dei crediti all’estero e nell’eclisse del multilateralismo nelle relazioni commerciali internazionali, sostituita dalla sottoscrizione di accordi bilaterali fra i vari Stati, da svalutazioni competitive e da crescenti chiusure autarchiche.
È vero che erano stati gli esponenti del Partito repubblicano a inaugurare già dai primi anni Venti una politica economica degli Usa tendente a presidiare il proprio apparato agricolo-manifatturiero mediante l’applicazione di pesanti tariffe doganali sulle importazioni, associata a una politica estera orientata verso l’isolazionismo. Ma questa linea di condotta continuò a essere praticata dopo il 1932 e ben presto anche i principali governi europei seguirono l’esempio degli Stati Uniti, nell’intento di difendere a oltranza la produzione nazionale dalla concorrenza estera: al punto da deprimere ulteriormente il sistema degli scambi e da generare – in un contesto politico contrassegnato da equilibri sempre più fragili per l’aggressività dell’Asse tra Roma e Berlino – l’atrofizzazione e la paralisi del mercato internazionale, segmentatosi e arroccatosi in una trafila di compartimenti stagni coincidenti con i singoli mercati nazionali e i loro territori coloniali o quelli entranti nella propria sfera d’influenza.
Oggi, naturalmente, lo scenario mondiale è profondamente diverso per tanti aspetti da quello del terzo decennio del Novecento. Ma destano forti preoccupazioni, unitamente alla reviviscenza di rudi pulsioni nazionaliste e all’impatto di nuove aspre tensioni di carattere geopolitico, la riluttanza alla stipulazione di trattati multilaterali di libero scambio, l’acuirsi di dispute e ritorsioni sulle tariffe daziarie e la minaccia di una dura guerra commerciale e valutaria fra Stati Uniti e Cina. Nel loro insieme queste circostanze costituiscono dei segnali quanto mai inquietanti sul pericolo, denso di gravi incognite, tanto di un’escalation sovranista che di un’implosione recessiva.
Valerio Castronovo
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