di Gianni Toniolo
(Afp)
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Il mondo in cui viviamo è, per molti aspetti, se non il migliore possibile, certo il migliore sinora realizzato nella storia universale. Nel complesso, l’umanità è oggi più prospera, longeva, sana, istruita di quanto sia mai stata. In gran parte del mondo, con l’eccezione di alcuni paesi africani, fame e povertà sono molto diminuite e continuano a diminuire. Per la prima volta nella storia, si è diffusa nel mondo una numerosa classe media benestante i cui figli si aspettano di vivere meglio dei genitori. Si tratta di risultati che rendono difficile guardare oggi il nostro pianeta con gli occhiali del pessimismo.
Questi risultati vanno sottolineati, non per compiacimento, la lotta alla fame e alla povertà non è vinta, ma per renderci conto di che cosa potremmo perdere nei prossimi anni e decenni se il benessere individuale e sociale migliorasse più lentamente o subisse improvvisi rovesci. Nel breve termine, i rischi maggiori vengono dall’inasprirsi della guerra tariffaria, dal suo possibile estendersi alle monete , dall’indebolimento progressivo delle istituzioni multilaterali che tanto hanno contribuito a rendere il secondo dopoguerra così diverso dal primo. Nel più lungo andare, ma non si tratta di molti decenni, è il cambiamento climatico a costituire la minaccia maggiore al benessere, alla salute, alla sicurezza alimentare , all’equità nella distribuzione delle risorse, alla stessa incolumità personale di miliardi di esseri umani. Il Rapporto (Outlook) delle Nazioni Unite sulla situazione ambientale globale , al quale hanno collaborato decine di studiosi, ricorda autorevolmente, se ancora ve ne fosse bisogno, che il cambiamento climatico è scientificamente dimostrato in modo inequivocabile.
Si può negarlo solo per ignoranza o inconfessabili interessi. I rischi ambientali non appartengono a un futuro remoto, non riguardano solo le generazioni di domani. Già oggi essi causano, nel mondo, il 23 per cento delle morti. I cambiamenti climatici avranno impatti sempre più incisivi sulla nostra vita quotidiana e sui sistemi produttivi. Se non contrastati produrrebbero la scomparsa di numerose città costiere, renderebbero impraticabile l’agricoltura in varie parti del mondo. L'entità delle odierne migrazioni impallidirebbe sotto la spinta delle persone in fuga dal caldo soffocante, dalla sete, dalla distruzione di posti di lavoro. Le persone più deboli - bambini, vecchi, donne, poveri - sarebbero le più colpite, con effetti sociali destabilizzanti anche sul resto dell'umanità.Ridurre i danni ambientali prodotti dalle stesse forze che hanno generato gli straordinari progressi ai quali ho accennato, così come l'attrezzarsi ad affrontare i danni ormai irreversibili, implica il coordinamento globale di una conversione tecnologica senza precedenti storici.
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L’intelligenza artificiale, se bene orientata e utilizzata, potrà essere di grande aiuto. Ma i problemi da affrontare sono soprattutto di natura sociale e politica. Come fare accettare la “conversione” a diversi stili di vita, a nuove forme di lavoro, l'abbandono di modi consolidati di pensare, di culture secolari? Come comporre gli interessi, legittimi e meno legittimi, di individui, collettività, nazioni, stati, continenti senza che i necessari compromessi politici richiedano una corsa verso il basso che finisca per vanificare ogni sforzo? Sono domande prive di facili risposte, tanto che molti dubitano che la salvezza del pianeta sia compatibile con la democrazia. Le recenti scelte di politica ambientale degli Stati Uniti sembrano rafforzare questi dubbi. Ma il sacrificio della democrazia, se pure fosse desiderabile, non salverebbe la terra. Le azioni che singoli e comunità devono porre in atto sono di natura complessa, fine, diffusa, pervasiva. Si prestano facilmente a comportamenti opportunistici. Non possono, dunque, che fondarsi su un ampio consenso individuale e sociale. La presa di coscienza del rischio ambientale, della sua imminenza, dei suoi effetti sulla vita quotidiana e sull'economia odierne, non solo su quelle dei nostri figli e nipoti, è pertanto un indispensabile primo passo sulla difficile via che porta a ridurre tale rischio.
Circa il 20 per cento degli europei assegna al cambiamento climatico il primo posto tra i problemi che la nostra collettività deve affrontare. La percentuale è molto cresciuta negli ultimi due anni ed è, paradossalmente, assai più elevata nei paesi nordici, i meno esposti alle conseguenze del riscaldamento globale. Il Mediterraneo figura, invece, nel rapporto dell’Onu, tra le aree a maggiore rischio climatico . Malgrado ciò, questo rischio è fortemente sottovalutato dall’opinione pubblica italiana e dai decisori politici, attenti ai sondaggi. La comoda narrazione di una perpetua crisi mondiale ed europea, dalla quale deriverebbero i mali del paese, ha contribuito a rendere difficile per l’Italia l’agganciare il grande progresso compiuto dall’umanità nell’ultimo ventennio e rende, oggi, gran parte degli italiani disattenta al rischio di una regressione globale prodotta dal deterioramento dell’habitat umano. Il rilievo, inaspettato, dato dai media italiani, tradizionali e nuovi, all’ultimo rapporto dell’Onu sulla situazione ambientale del pianeta fa sperare che possa crescere anche nell’opinione pubblica del nostro paese la consapevolezza dell’importanza e dell’urgenza di affrontare la questione climatica. La prossima campagna elettorale è un’occasione per le forze politiche di mostrare sensibilità ai temi ambientali facendo conoscere e discutendo le proprie proposte in argomento.
Anche da noi come altrove, gli elettori potrebbero premiare chi abbracciasse quella che papa Francesco (La Stampa 9 agosto) chiama «la cultura di non sporcare il creato», la cui diffusione non è sufficiente alla salvezza del creato stesso ma ne è condizione necessaria.
gtoniolo@luiss.it
Gianni Toniolo
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