di Paolo Armaroli
(AP Photo/Gregorio Borgia)
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In guerra si muore una volta sola. In politica, invece, si può morire e risorgere un’infinità di volte. Lo sapeva bene Amintore Fanfani, il montanelliano “Rieccolo” nazionale. Ogni volta che le buscava di santa ragione, si consolava osservando che alle Quaresime seguono le Resurrezioni. Insomma, si può passare dagli altari alla polvere e viceversa. Com’è capitato a Napoleone. Si può passare dalle stelle alle stalle. Come, nel suo piccolo, è capitato a Matteo Renzi. Cattolico osservante qual è, anche lui in questi giorni coltiva il sogno della resurrezione. Una sola cosa non può permettersi un politico navigato: perdere la faccia. È il rischio che corre Matteo Salvini.
Si sentiva onnipotente, Salvini. Riteneva di avere l’Italia in mano, tant’è che pensava di correre alle elezioni solo contro tutti. Nemmeno fosse la Nazionale di calcio inglese, che nel dopoguerra sfidava il resto del mondo. Ma ha fatto il passo più lungo della gamba. E adesso innestare la retromarcia, come sta tentando, non sarà facile. Che la sua sia stata una mossa tattica o no, ai suoi stessi sostenitori ha dato l’impressione di un andare a Canossa pur di non perdere il potere. È perfino corsa voce, vera o falsa che sia, che avrebbe offerto a Luigi Di Maio la carota della presidenza del Consiglio. Alla quale, com’è arcinoto, ambisce da morire.
Tra le tante parole attribuite a Sergio Mattarella, una è di sicuro verisimile. Lo stesso capo dello Stato, in perfetta sintonia con un’opinione pubblica smarrita per la precrisi di governo più pazza del mondo, ritiene con ragione che può accadere tutto e il contrario di tutto. Eppure, qualcosa si sta muovendo. Come ha osservato sul Sole 24 Ore di domenica Emilia Patta, “tutto dipenderà dal dialogo informale tra M5s e Pd nelle prossime ore”. Proprio così. Se Salvini teme di perdere la cadrega, il Pd non vede l’ora di tornare al governo. E i matrimoni che durano di più non sono quelli d’amore, un sentimento che ha ben poco a che fare con la politica, ma quelli d’interesse. A tal fine qualsiasi capriola si giustifica. Basta guardare dalle parti del senatore di Scandicci. Felice come una Pasqua per essere finalmente baciato, come nel bel tempo andato, dalle luci della ribalta.
Se così stanno le cose, e per prudenza sottolineo “se”, allora oggi dal punto di vista procedurale le cose dovrebbero andare così. Scomparsa all’orizzonte quella mozione di sfiducia leghista che si proponeva di mettere all’angolo Giuseppe Conte e con lui baracca e burattini pentastellati, mai calendarizzata, la seduta a Palazzo Madama inizierà con le comunicazioni del presidente del Consiglio. E non saranno rose e fiori. Scimmiottando l’Innominato, potrebbe dichiarare di aver sopportato angherie e ironie a non finire per un anno e passa e ora ne ha abbastanza. Ce l’avrà con Salvini che l’ha sempre guardato un po’ dall’alto in basso, che l’ha sempre considerato un suo vice. Ma ecco la metamorfosi. A poco a poco Conte ha avuto voce in politica estera e comunitaria. E ha preteso di dirigere la politica generale del governo, ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione. Insomma, violentando la propria natura di uomo dalla forza tranquilla, è probabile che assisteremo a un regolamento di conti vero e proprio.
A questo punto, che cosa accadrà? Ce lo dice il regolamento del Senato. A conclusione degli interventi dei vari gruppi, potranno essere presentate risoluzioni. È possibile che i Cinque stelle e il Pd, con eventuali contorni vari, ne presentino una in comune. Che, oltre ad approvare le dichiarazioni di Conte, elenchi una serie di punti programmatici sui quali convergere. Solo questa, con l’ovvio assenso di Conte, passerebbe. Mentre le eventuali altre, quale ne sia il contenuto, verrebbero respinte. Avremmo così una sorta di mozione di sfiducia costruttiva alla tedesca. Perché seppellisce il governo in carica per sostituirlo con un altro. Nel caso specifico, la maggioranza parlamentare cambierebbe. Mentre il presidente del Consiglio resterebbe lo stesso.
Mattarella, dopo le consultazioni di rito, conferirebbe il reincarico a Conte. E l’incaricato, se tutto filerà liscio con i partiti della costituenda maggioranza, scioglierà la riserva e presenterà al capo dello Stato la lista dei ministri. Tutto è bene quello che finisce bene? Sì e no. Perché solo in quel teatro dell’assurdo che è il Parlamento italiano può accadere che chi ha stravinto le recenti elezioni regionali ed europee, come la Lega, starebbe all’opposizione e chi le ha straperse, come i Cinque stelle, rimarrebbe al governo.
Aveva ragione quella malalingua di Leo Longanesi. Sbagliando non s’impara. Macché, sbagliando s’impera.
Paolo Armaroli
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