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Talenti (e tare) di una eccellenza italiana

di Andrea Goldstein

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Prodotti e chef tricolori sono sempre più noti, ma senza capitali non ci sarà mai la vera crescita

7 febbraio 2020
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3' di lettura

Se l’Economist e Jean Anthelme Brillat-Savarin hanno ragione, allora possiamo finalmente smettere di parlare di declino italiano. Per il settimanale londinese, gli italiani sono i più bravi in cucina; e, dato che per l’autore della Physiologie du Goût, ou Méditations de Gastronomie Transcendante, la cucina determina il destino delle nazioni, c’è da brindare.

A certificare quantitativamente tanta saggezza è Joel Waldfogel, un economista americano con un Ph.D. a Stanford e pubblicazioni sulle più prestigiose riviste, che ha studiato il commercio globale dei pasti consumati fuori casa (in ristoranti e fast food), considerando come importazioni i consumi interni di cucina straniera e come esportazioni quelli esteri di cucina nazionale. Trovando che in questo tipo di intercambio i Paesi leader sono Italia (con il maggiore surplus, di gran lunga), Giappone, Cina, India e Stati Uniti; che l’America registra comunque il deficit più ampio, insieme alla Cina; e che le traiettorie di questo particolare tipo di commercio ricalcano assai più fedelmente quelle delle migrazioni che quelle del commercio agroalimentare.

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La cucina italiana nel mondo non è però una questione esclusivamente di diaspora e di un’offerta tradizionale di pizza, pasta e parmigiano. Qualche anno fa, Nomisma aveva realizzato un progetto per la Farnesina su come la cucina di media e alta qualità venga promossa nel mondo, mettendo in evidenza come la diplomazia culinaria sia una cosa sempre più seria. I francesi, per esempio, nel commercio internazionale stanno tra Egitto e Thailandia, dato che all’estero mancano di proposte alla portata delle classi medie, ma hanno sempre dominato i ranking dei ristoranti stellati e affini.

A dir la verità, negli ultimi anni alcune guide avevano scoperto altre lande di eccellenza come Spagna e Italia, ma il presidente dell’agenzia per la promozione del marchio France ha lanciato nel 2015 La Liste, che grazie agli algoritmi sintetizza i giudizi di 600 guide e che include nella Top 50 ben 19 tavole francesi, comprese due del compianto Joël Robuchon in Asia. Gli eredi di Auguste Escoffier non sono i soli, ormai tutti i Paesi sono coscienti che la cucina è uno strumento potente di proiezione internazionale, soft power e ricchezza economica. Gli esempi spaziano dal Perù alla Thailandia, passando per il Giappone e il Regno Unito – del resto, se qualcuno è ghiotto di Marmite, la deliziosa/disgustosa crema spalmabile a base di estratto di lievito, chi siamo noi per giudicare?

Tornando allo Stivale, dal 2015 si svolge la settimana della cucina italiana nel mondo, con cui la Farnesina promuove la conoscenza del patrimonio enogastronomico al di là delle 3P. Non si sa se per merito degli ambasciatori ai fornelli, o dell’acquisto di marchi italiani da parte di investitori esteri, certo è che negli ultimi anni sono esplose le esportazioni di nuovi prodotti – per esempio il panettone, che in Francia se la gioca ormai con la bûche de Noël.

Cresce anche l’emigrazione di personale sempre più qualificato, da chi si fa le ossa da René Redzepi come il torinese Stefano Ferraro, chef pâtissier a Noma, a star da noi semi-sconosciute come il bergamasco Umberto Bombana a Hong Kong, il cui Otto e mezzo è l’unico tri-stellato italiano all’estero. Che osa il wagyu al Barolo, alla stregua di Yoji Tokuyoshi, ex sous-chef di Massimo Bottura, che a Milano è famoso per lo sgombro Gyotaku e Alba Esteve Ruiz, che a Roma cucina il risotto con alici del Cantabrico e zenzero candito. Due dei non pochi stranieri (i più celebri sono Annie Féolde dell’Enoteca Pichiorri di Firenze e Heinz Beck della Pergola a Roma) che continuano a innovare e contaminare, sprovincializzando la nostra cucina. Così come al Mirazur di Mentone dell’argentino Mauro Colagreco, al primo posto della World’s 50 Best Restaurants 2019, le referenze italiane nel menu spaziano dal lardo di Colonnata all’ormai onnipresente mozzarella di bufala.

Talento, tradizione e territorio fanno la ricchezza della gastronomia italiana, ma senza finanziamenti non si va lontano. E qui le tare, ma anche i pregi, del capitalismo italiano si ripropongono: predomina la proprietà famigliare (anche se i fondi iniziano a interessarsi al comparto), che equivale spesso a gestione finanziaria oculata e indebitamento in calo, ma può significare pure la rinuncia a opportunità di crescita accelerata. Con il rischio che siano altri a sfruttare il momento d’oro della gastronomia italiana.

Basti pensare a Big Mamma, il gruppo di sette ristoranti 100% italiani, tra cui uno da 1.500 coperti, che impiega pressoché esclusivamente personale italiano, ma che è stato fondato da due laureati Hec (la Bocconi di Parigi, meno il nuovo campus disegnato dallo studio Sanaa di Tokyo) e nel cui azionariato troviamo tra gli altri Xavier Niel di Iliad e gli ex proprietari dei marchi di abbigliamento Maje e Sandro. Senza dimenticare che metà del finanziamento iniziale, a due trentenni alle prime armi, lo hanno fornito le banche...

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