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Climate change, una generazione in marcia per difendere la Terra

di Gianluca Di Donfrancesco

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La sedicenne Greta Thunberg sul palco di Battery Park, a New York, il 20 settembre

La sedicenne Greta Thunberg sul palco di Battery Park, a New York, il 20 settembre

Daniela ha 13 anni, ne avrà 43 nel 2050. È una delle centinaia di migliaia di giovani in marcia a New York per invocare interventi urgenti contro il cambiamento climatico: «Sono qui perché penso che possiamo fare la differenza, se ci muoviamo tutti insieme. E dobbiamo iniziare dalle cose di tutti i giorni: meno aria condizionata nelle case, meno auto private, più mezzi pubblici»

21 settembre 2019
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4' di lettura

«Sono qui perché penso che possiamo fare la differenza, se ci muoviamo tutti insieme. E dobbiamo iniziare dalle cose di tutti i giorni: meno aria condizionata nelle case, meno auto private, più mezzi pubblici». Daniela ha 13 anni, ne avrà 43 nel 2050. Come sarà il suo mondo, dipenderà dalle scelte che individui , Governi e imprese fanno (o non fanno) oggi per contrastare il cambiamento climatico, definizione un po’ anestetizzata per descrivere fenomeni come desertificazione, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello degli oceani.

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Per garantirsi un futuro vivibile, venerdì 20, Daniela è scesa in strada, in braccio un cartello con la scritta «Basta negare, è ora di prepararsi», e si è unita alle decine di migliaia di studenti che hanno dato vita alla marcia di New York.

Si sono dati appuntamento a Foley Square, a pochi passi dalla City Hall, dove il sindaco Bill de Blasio ha diffuso una dichiarazione congiunta con i suoi colleghi di Londra, Parigi, Los Angeles e Copenaghen: «Quando la tua casa è in fiamme, qualcuno deve suonare l’allarme. I giovani nelle nostre città, mostrando incredibile maturità e dignità, stanno facendo la cosa giusta».

LE IMMAGINI: Climate change, esplode la protesta mondiale

Attorno alle 12.30 (ora di New York) il corteo si è messo in moto per un chilometro e mezzo fino a Battery Park. Qui, la marea colorata, punteggiata da cartelli improvvisati, striscioni e bandiere, si è assiepata sotto il palco allestito per ospitare gli interventi di tanti giovani attivisti e hanno aspettato la loro ispiratrice, Greta Thunberg , l’attivista svedese, simbolo di una nuova coscienza ambientalista.

Circa un milione e centomila ragazzi, bambini e adolescenti, hanno saltato le lezioni, con il permesso delle autorità scolastiche di New York (che però hanno negato al personale scolastico la possibilità di partecipare alla manifestazione), in occasione di questo grande sciopero contro il climate change, il più importante dei «Friday for Future» lanciati circa un ano fa da Greta.

La manifestazione è stata organizzata alla vigilia delle giornate contro il surriscaldamento globale, indette al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Sabato 21 si apre con il vertice dedicato ai ragazzi: l’Assemblea generale aprirà le porte a una folta delegazione di giovani attivisti. Lunedì 23 toccherà ai capi di Stato e di Governo delle nazioni più decise a contrastare il cambiamento climatico. Dovranno dimostrare di essere all’altezza dei ragazzi, mettendo sul tavolo proposte concrete. «Hanno l’opportunità di fare qualcosa e dovrebbero coglierla. Altrimenti, dovranno vergognarsi», ha ammonito ieri dal palco di Battery Park Greta, che tornerà a far sentire la sua voce il 21 e il 23, dal quartier generale dell’Onu.

L’eco dell’appello di New York è risuonato in 150 Paesi di 7 continenti: uno sciopero senza frontiere. Da Sydney a Berlino, dove Angela Merkel ha lanciato il piano di investimenti “verdi” da 54 miliardi di euro per la Germania. Da Johannesburg a Varsavia, da Islamabad a Kabul, un’intera generazione unita da un obiettivo comune. «Salviamo il nostro mondo», «Non c’è un pianeta B», «Svegliatevi!»: recitano gli slogan che sono rimbalzati da un angolo all’altro del globo.

«Vogliamo quello che è meglio per il pianeta, il climate change - spiega da New York Justin, 20 anni - è stato dimostrato così tante volte che non c’è ragione di negarlo. Per fermarlo servirebbe un cambiamento radicale del sistema, ma credo si debba avere pazienza e procedere gradualmente».

Molte delle promesse finora fatte per ridurre le emissioni di gas serra sono rimaste, però, sulla carta, e gli Stati Uniti di Donald Trump si sfilano dagli Accordi di Parigi del 2015, con i quali i leader mondiali avevano fissato l’obiettivo di ridurre l’aumento delle temperature sotto i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, entro la fine del secolo, per poi abbassare l’asticella a 1,5 gradi.

Il traguardo sarà mancato, a meno di scelte più incisive, che, avvisano scienziati e ambientalisti, devono passare anche e soprattutto dall’abbandono dell’utilizzo del carbone (responsabile del 46% dei gas serra), dalla revoca dei sussidi ai combustibili fossili e dallo stop alla deforestazione: secondo un report di Climate Focus, tra il 2014 e il 2018 (e quindi senza tenere conto dei recenti incendi in Amazzonia), ogni anno, il mondo ha perso 26 milioni di ettari di alberi, una superficie pari a quella della Gran Bretagna, con un balzo del 43% rispetto al periodo 2001-2013. Foreste abbattute in primo luogo per far posto ad allevamenti e per la produzione di soia e olio di palma. Mentre le emissioni di gas serra non diminuiscono al ritmo sperato.

Il risultato sono siccità, aumento del livello del mare, inondazioni, tempeste sempre più violente. In altre parole: il caldo record registrato in Europa nell’estate appena passata, quella dello scioglimento drammatico dei ghiacciai in Groenlandia, dei roghi in Africa, Siberia e Amazzonia, dell’uragano Dorian che ha devastato le Bahamas.

Il prezzo più alto lo pagano e lo pagheranno le popolazioni più povere della terra, le meno attrezzate per reagire ai disastri causati dall’inasprimento dei fenomeni meteorologici e dalla scarsità di acqua. Fenomeni che costringono milioni di persone a lasciare i propri villaggi e che, entro il 2030, secondo la Global Commission on Adaptation, potrebbero spingere sotto la soglia della povertà 100 milioni di abitanti dei Paesi in via di sviluppo.

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Per questo, il segretario generale delle Nazione Unite, Antonio Guterres, parla di un nuovo apartheid climatico. Mentre Michelle Bachelet, il commissario Onu per i diritti umani, avvisa: il 40% delle guerre civili degli ultimi 60 anni sono state causate dal degrado delle condizioni ambientali. Nel Sahel, la perdita di terreni coltivabili «sta intensificando la competizione per il controllo di risorse alimentari già scarse». Un processo che esaspera le tensioni etniche e alimenta l’instabilità. La minaccia del climate change è anche geopolitica.


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