di Patrizia Maciocchi
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Via libera al licenziamento del dipendente che stalkerizza la collega con la quale ha avuto una relazione sentimentale e non si rassegna alla rottura del rapporto. La massima sanzione scatta anche se il comportamento è extralavorativo, se così grave da ledere il vincolo di fiducia tra le parti.
Il ferroviere stalker
La Cassazione (sentenza 1890) conferma il licenziamento di un ferroviere di Trenitalia che, dopo la fine della relazione con una collega, la minacciava «con insistente ed assillante invio di sms e mms di far vedere al marito foto o filmini compromettenti», si appostava per sorprenderla e la pedinava. Un atteggiamento persecutorio messo in atto anche con la diffamazione «mediante l’affissione, nei bagni di luoghi pubblici e nelle stazioni, del suo numero di telefono con invito a contattarla per prestazioni sessuali» . Il risultato era stato quello di suscitare nella sua vittima «preoccupazione per l'incolumità propria e del marito e malessere psico-fisico tali da indurla a modificare le proprie abitudini di vita e da interferire sull’organizzazione dell’attività lavorativa, con riflesso sull’intollerabilità della prosecuzione del rapporto di lavoro».
La condanna per atti persecutori
Le reazioni tipiche di chi subisce lo stalking, sulle quali il tribunale si era basato per la condanna per atti persecutori ad un anno e quattro mesi di reclusione: un verdetto confermato, circa cinque anni dopo, anche dalla Corte d’Appello. Dopo la condanna in primo grado era arrivato il licenziamento, per giusta causa, di Trenitalia, anche in considerazione del fatto che l’uomo, malgrado il verdetto del tribunale, non aveva desistito dal suo atteggiamento persecutorio. Senza successo la difesa dello stalker ha sostenuto che il licenziamento era eccessivo e che bastava un trasferimento «ad altro impianto».
La giusta causa di licenziamento
Ma la Cassazione conferma la legittimità della scelta di Trenitalia. I giudici ricordano, infatti, che la tipizzazione delle condotte, contenuta nella contrattazione collettiva, ai fini della valutazione della giusta causa di recesso, non è vincolante. Il giudizio di gravità e proporzionalità spetta, infatti, al giudice, «purché siano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario». E nel caso specifico il rapporto di fiducia era stato certamente compromesso.
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