di Valentina Furlanetto
(REUTERS)
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«Mi sono messo a correre dopo aver saltato il muro. Sono sette metri di altezza, con filo spinato sopra. Non è stato facile». Alpha, 19 anni, della Guinea Conakry, è un ragazzo alto e sorridente che incontro fuori dal Ceti, il centro per richiedenti asilo di Melilla, enclave spagnola in Marocco. Parla un buon inglese, ha studiato, mi spiega che parla altre tre lingue oltre all'inglese e che è venuto in Europa per trovare un futuro migliore.
Per questo - dice - se n'è andato dal suo paese. In Guinea Conakry, un piccolo paese dell'Africa Occidentale, non c'è una guerra, ma diverse tensioni politiche e soprattutto non ci sono prospettive. Quello che lo ha spinto a partire - dice - è la povertà. Così ha attraversato il Mali, la Mauritania, l'Algeria e poi è arrivato in Marocco. Infine ha scavalcato il muro a maggio e ora aspetta di capire se la sua domanda verrà accettata.
Come l'Europa si è fatta fortezza chiusa
Io ero poco più giovane di Alpha il 9 novembre 1989, trent'anni fa, quando è caduto il muro di Berlino. I giovani di allora guardavano a quell'evento come a un nuovo inizio, il sogno di un'Europa senza confini. Quel sogno si è infranto contro sedici muri esistenti oggi nel Vecchio Continente, quasi mille chilometri di recinzioni, barriere, filo spinato, radar. Muri eretti per la paura di attentati terroristici e dei flussi migratori. L'Europa ha affrontato l'arrivo nel 2015 di oltre un milione di persone, quattro volte il numero registrato nel 2014. Come conseguenza nel 2015 sono sorti muri o recinzioni un po' ovunque: fra Francia e Gran Bretagna, in Norvegia, Svezia, Austria, Ungheria, Polonia, Slovenia, Grecia, Bulgaria, Macedonia.
La diffidenza contro la Russia ha spinto poi molti piccoli paesi baltici a blindare i confini. Passano droga, merci, tabacco, ma non passano gli uomini. Sedici muri che hanno fatto dell'Europa una fortezza chiusa, anche al suo interno. Periodicamente si parla poi del progetto di un muro fra Italia e Austria e fra Italia e Slovenia, mentre fra Italia e Svizzera esiste già una barriera virtuale fatta di un intenso pattugliamento di Berna con droni e satelliti sul confine. Fra Francia e Italia nessun muro, ma il passo di Bardonecchia è pattugliato e i respingimenti dei minori hanno creato spesso tensioni fra Parigi e Roma.
Frontiera di terra con l' Africa
Ma il primo Paese europeo a costruire dei muri è stata la Spagna che tra il 1995 e il 2005 ha isolato Ceuta e Melilla, le due enclavi che possiede in Marocco con lunghi muri che circondano le due città. Melilla è un posto strano. La domanda che mi sono sentita più spesso fare lì era se avessi notato la statua di Francisco Franco, vicino al porto. Impossibile non notarla. Nonostante la legge dell'ex premier Zapatero lo proibisca dal 2009, la statua del dittatore spagnolo continua a svettare in una piazza della città. È l'unica in un luogo pubblico spagnolo. Doveva essere rimossa a marzo, invece è ancora lì. Anche questo particolare è indicativo della unicità di questo posto che è una città spagnola, ma sta in Africa, che è sotto il controllo del governo di Madrid, ma gode anche di una sua autonoma. E soprattutto è una delle uniche due frontiere di terra tra Europa e Africa, l'altra è Ceuta.
Melilla è un francobollo di dodici chilometri quadrati circondato su un lato dal mare e, sugli altri tre lati, da un muro alto sette metri sormontato da filo spinato doppio. In certi tratti il muro è di cemento, in altri è una barriera di metallo. Fotografarlo o avvicinarsi sul lato spagnolo non è facile perchè le pattuglie della Guardia Civil sono molto solerti nel dissuadere i giornalisti a farlo, dalla parte marocchina esistono comunque dei pattugliamenti continui, ma è più facile aggirare la sorveglianza della polizia locale e farsi un'idea della situazione.
Flussi mai interrotti
Le barriere, erette a fine anni Novanta, in realtà sono due, parallele, a distanza di qualche metro una dall'altra, con posti di vigilanza alternati e camminamenti per il passaggio di veicoli adibiti alla sicurezza. Ci sono poi dei cavi sul terreno che connettono una rete di s ensori elettronici acustici e visivi. La barriera è dotata di un'illuminazione ad alta intensità, di un sistema di videocamere di vigilanza a circuito chiuso e strumenti per la visione notturna. Il costo, sostenuto dall'Unione europea, è stato di 30 milioni di euro.
L'ultimo tentativo di scavalcare ha riguardato una cinquantina di migranti a luglio. Non ce l'hanno fatta, ma - è inutile negarlo - sono pronti a riprovarci fino a che non ci riusciranno. Se il muro doveva servire a fermare o diminuire gli arrivi ha fallito. A Melilla i migranti continuano ad arrivare. Nel 2018 sono entrate in Europa attraverso Melilla 5.700 persone, l'83% via terra e il 17% via mare (dati Unhcr).
Un terzo i siriani in fuga dalla guerra
All'esterno del Ceti, il centro richiedenti asilo di Melilla, è un continuo via vai di richiedenti asilo. Qualcuno, a sorpresa, parla italiano. Aboubakar Coulibaly, della Costa d'Avorio, è residente a Lecce. «Vengo dalla Costa d'Avorio – racconta - vivo in Italia da tre anni, raccolgo pomodori in campagna vicino a Lecce. Sono qui a Melilla per mia figlia che ha cinque anni e vive all'interno del centro per i rifugiati. Era partita con mia moglie dalla Costa d'Avorio perchè volevano raggiungermi, hanno provato ad arrivare in barca, ma mia moglie è morta. La vita è così».
La bambina si chiama Kadiatu e gioca in mezzo alla polvere non lontano dal padre. «La vedo tutti i giorni – dice Aboubakar - lei dorme dentro il centro, sta con mia cognata, ma di giorno esce e posso vederla. Io dormo qui fuori. Dormo per terra e aspetto. Non voglio allontanarmi. Devo aspettare un mese il risultato del Dna. Perchè non ho i documenti e devono essere sicuri che sia mia figlia». Dopo un mese via Whatsapp chiedo a Aboubakar se ha avuto i documenti e il risultato del Dna, ma mi dice di no. Dorme sempre fuori dal Ceti, non si allontana. Aspetta.
«Sono persone traumatizzate – spiega Silvia Gabrielle che lavora per Unhcr a Melilla - hanno dovuto abbandonare le loro case a causa della guerra o di persecuzioni. Una parte difficile del nostro lavoro è conquistare e mantenere la fiducia delle persone che incontriamo. Arrivano qui e la prima cosa che hanno bisogno è sentirsi sicuri. Moltissimi arrivano dalla Siria o sono palestinesi che vivevano in Siria e hanno abbandonato il paese a causa del conflitto». Un terzo degli arrivi a Melilla è rappresentato da siriani in fuga dalla guerra (30%) e questo nonostante il lunghissimo viaggio che comporta questa rotta. Seguono, come nazionalità, i palestinesi (10%) e i cittadini della Guinea (10%).
Uno di questi siriani è Karim, 21 anni, che nel 2015 ha lasciato Homs. «Mia figlia e mia moglie vivono al Ceti, il centro per richiedenti asilo di Melilla - racconta Karim - io ho la residenza e vivo a Siviglia, ho i documenti in regola. Sono venuto in Spagna nel 2015 dalla Siria a causa della guerra. Lavoro a Siviglia da quattro anni ormai. Faccio l'autista. Due anni fa ho fatto venire mia moglie in Marocco dove è nata mia figlia. Sono arrivate in Marocco attraverso l'Algeria, poi hanno passato la frontiera a Beni Enzar. Abbiamo pagato una persona per farle passare, per fortuna io ho lavoro a Siviglia. La situazione in Siria non è buona, la mia famiglia sta un po' in Marocco, un po' in Spagna e un po' in Francia».
La «foresta» divisa tra escursionisti e migranti
Negli ultimi mesi è aumentato notevolmente il numero dei siriani che arrivano in Spagna. Ingannati dalle bande di contrabbando in Marocco, entrano a Melilla dai valichi di frontiera con passaporti falsi marocchini o semplicemente filtrando attraverso la folla del "commercio atipico" nelle ore di punta. Arrivano a Melilla anche diversi cittadini dello Yemen (8%) in fuga dalla guerra. Anche in questo caso colpisce la distanza che queste persone devono affrontare per arrivare in Europa dall'enclave spagnola.
Molti migranti prima di scavalcare il muro vivono un certo periodo a Gurugu, una collina vicino a Nador, in Marocco, che tutti qui chiamano la «foresta». Blanca è una attivista che si occupa dei minori non accompagnati per la Ong Cañada Viva. «Sì la foresta esiste – dice - si chiama Gurugu, ha un bel suono vero? È un bosco su una collina, da una parte ci sono i turisti che fanno le escursioni e danno da mangiare alle scimmie, nella parte opposta è una foresta molto fitta, e lì vivono migliaia di migranti in condizioni disumane, dormono per terra, si nutrono di quello che trovano, aspettano che arrivi il momento buono per scavalcare il muro, trattano con i passeur che li aiutano a passare la frontiera, vendono loro i passaporti o i passaggi in barca.
Il trasferimento in centri di detenzione illegali
La polizia marocchina ogni tanto fa delle retate e se trova dei migranti africani nella foresta li carica nei camion e li porta a sud del Marocco, li scarica lì. Qui a Melilla senti davvero le conseguenze del muro, l'ingiustizia tra quello che abbiamo noi in Europa e quello che non ha il resto del mondo». «Sono stato nella foresta un anno – racconta Alpha - la vita lì non è facile: dormire per terra nella foresta, cibarsi di quello che si trova, senza medicine, non è facile. Inoltre i marocchini non amano le persone africane, se ti trovano nella foresta ti prendono il cellulare, le scarpe, ti privano di quello che hai, spesso ti arrestano o ti picchiano. C'è molto razzismo».
Alpha è molto evasivo sulla presenza e la collaborazione di trafficanti di esseri umani nell'impresa di scavalcare, ma da altre fonti si viene a sapere che sono loro a segnalare l'allentamento della sorveglianza e i momenti giusti per passare. A pagamento, chiaramente. A Nador, la cittadina subito dopo il confine, in Marocco, non è poi difficile procurarsi un passaporto falso, mi spiegano a Amdh, l'Association marocaine des droits humains.
Anche secondo l'avvocato Diego Fernandez, della Ong Refugees Jesuit Service, il Marocco periodicamente effettua delle retate a Gurugu, i migranti vengono portati in centri di detenzione illegali e successivamente respinti al confine con l'Algeria. Fernandez sostiene che le autorità marocchine evitano di mobilitare in prima linea la polizia o la gendarmeria che possono arrestare legalmente delle persone solo su ordine di un giudice, ma utilizzano forze ausiliarie marocchine, un corpo paramilitare alle dipendenze del ministero dell'Interno.
Il sospetto sul ruolo ambiguo del Marocco
Quello che si capisce è che il Marocco è un gendarme meno cruento della Turchia e sicuramente meno della Libia, ma resta un tassello del sistema di esternalizzazione delle frontiere che l'Europa da tempo utilizza. Con tutti i rischi che questo comporta, compresa una dose di "ricatto" implicito di questi accordi. A metà 2018 Bruxelles ha annunciato l'approvazione di tre nuovi programmi - sotto il cappello del Trust Fund for Africa - diretti ai Paesi del Nord Africa per un totale di oltre 90 milioni di euro. Di questi, 55 milioni di euro erano destinati a Tunisia e Marocco per la «gestione dei confini marittimi della regione del Maghreb». Secondo molti osservatori, il Marocco potrebbe aver allentato di recente i controlli sui flussi dei migranti per avere una leva contrattuale in più al tavolo delle trattative con l'Europa.
È un dato di fatto che i flussi sono molto aumentati in Spagna. Tra il 2014 e il 2016, quando Italia e Grecia subivano ondate migratorie molto importanti, in Spagna arrivavano poche migliaia di persone. Nel 2016 arrivarono in Spagna appena 14mila migranti (contro 181mila persone in Italia e 173mila in Grecia). Nel 2018 sono arrivati 65mila migranti (contro 22mila in Italia e 50mila in Grecia). Il trend per i primo otto mesi del 2019 conferma l'andamento del 2018.
L'andirivieni dei lavoratori giornalieri
E tuttavia l'opinione pubblica spagnola non è allarmata. Paradossalmente il dibattito attuale in Spagna riguardo al muro di Melilla riguarda il doppio filo spinato che il premier Sanchez avrebbe voluto togliere. «Un dibattito surreale - fa notare Blanca - perchè riguarda solo il muro dalla parte spagnola. Ma i muri sono due, e dalla parte marocchina non verrebbe tolto». Blanca si occupa di minori non accompagnati. «Molti di loro non vanno a scuola - dice - e non hanno diritto alla sanità pubblica. Sono bambini e ragazzini migranti che vivono per le strade, si mimetizzano nella zona del porto. Arrivano nascosti sotto i pullman o i camion. Sono soli, vivono di espedienti e della vicinanza delle associazioni che cercano di aiutarli».
Silvia Madejon, della Ong Medicos del Mundo, si occupa della salute dei migranti. «Non hanno accesso alla sanità pubblica – spiega - in Spagna chiunque vive sul territorio, anche senza documenti, ha accesso al servizio sanitario nazionale, ma a Melilla non è così per via della sua autonomia. Anche le donne in gravidanza e i bambini devono provare che vivono qui da almeno tre mesi per avere una copertura sanitaria. Lavoriamo molto con i minori non accompagnati, sono più di mille ragazzi, alcuni dormono nei centri per minori e molti per strada, spesso dormono intorno al porto, per terra. Questa è una zona di confine, oltre ai migranti che tentano di scavalcare la recinzione, ci sono coloro che ogni giorno passano dal Marocco alla Spagna per lavorare. Anche più di ventimila persone al giorno che entrano con il passaporto, ma senza un visto. Al termine della giornata lavorativa devono ritornare nel loro Paese. Alcuni hanno un'occupazione regolare altri no. La maggior parte sono donne che lavorano come domestiche o badanti a casa di qualche spagnolo, per lo più sono sottopagate e senza uno straccio di contratto.
Le "mujeres porteadoras"
Ancor peggiore, però, è la situazione delle "mujeres porteadoras", donne che ogni giorno trasportano merci dal Marocco alla Spagna. Sono considerate come dei muli, utili per abbattere i costi di trasporto e le tasse. Si mettono in fila alla frontiera per ore e ore sotto il sole. Da qualche tempo le cose sono migliorate perché ora vengono costrette a usare dei carrelli e la merce trasportata non può superare un certo peso. Di fatto, però, non hanno diritti. È una situazione complicata».
«Un muro per difendersi dall'Africa, ma Melilla è Africa»
A Melilla la notte, vicino al porto, non lontano da dove svetta la statua di Francisco Franco, un gruppo di volontari, per lo più donne legate alla Chiesa Cattolica, portano minestra e pane ai migranti. Moltissimi sono i minori non accompagnati, ragazzini e adolescenti che vivono per strada. Mi accompagna Blanca e un altro attivista di origini marocchine. È buio e le donne hanno già aperto il furgoncino da cui escono coperte e cibo caldo. Decine di giovani arrivano dalle strade buie del porto e si avvicinano rapaci alle ceste di viveri. Afferrano pezzi di pane e tazze di minestra, stringono mani, ringraziano. Sono tutti adolescenti, c'è anche qualche bambino sui dieci o undici anni. Arriva la polizia, i migranti scappano, si disperdono, le donne protestano con gli agenti.
A Melilla è vietato dare da mangiare agli affamati. Portando il cibo si incentivano i ragazzi a stare in strada, dice la polizia. È l'unico modo per avvicinarli e convincerli a farsi aiutare, dicono le donne. «È tutto molto complicato – ammette Blanca mentre torniamo – e soprattutto non capisco perchè Melilla esista. Qui hanno costruito una fortificazione per difendersi dall'Africa, ma questa è Africa, Melilla sta in Africa, è u n retaggio coloniale che non dovrebbe esistere. Tuttavia, se le barriere di Ceuta e Melilla hanno dimostrato qualcosa, è che il movimento delle persone può sì esser reso più difficoltoso, ma non può essere impedito. Se faranno un muro più alto, loro troveranno una scala più alta per scavalcarlo».
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