Norme e Tributi
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Carta di identità o no, sui social serve davvero più trasparenza

di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani

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(Agf)

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La individuazione, o almeno la individuabilità, della provenienza dei messaggi pare indispensabile per aumentare il tasso di trasparenza della comunicazione in rete

30 ottobre 2019
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3' di lettura

Decidere quali siano i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero è questione antica come la prima parola pronunciata dall’uomo. Nella legislazione repubblicana, la disciplina dei media ha spesso unito il rifiuto di strumenti di “censura”, con l’obbligo di identificarsi imposto a chi li usa.

L'esercizio di una libertà, infatti, può generare notevoli danni a beni preziosi. Ed è per questo che la legge, mentre esclude la presenza di misure preventive, impone che l’uso dello strumento di diffusione del pensiero avvenga “a viso scoperto”.

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È in questo quadro che si colloca la proposta dell'onorevole Marattin di obbligare i social network a chiedere un documento di identità per l’apertura di un profilo personale. Contemporaneamente, in rete, è stata diffusa da “Italia Viva” una petizione che va nella stessa direzione.

Va detto subito che, forse, l’idea di collegare l’apertura di un profilo su un social network alla presentazione di un documento di identità “in corso di validità”, è meccanismo che appare non troppo sofisticato e dal sapore vagamente antico. Tuttavia una simile presa di posizione segnala almeno due problemi esistenti davvero, legati peraltro uno all'altro. Si tratta della individuazione della provenienza dei messaggi e della responsabilità rispetto agli eventuali danni, in particolare alla reputazione ma non solo, che l’uso del mezzo può arrecare.

La individuazione, o almeno la individuabilità, della provenienza dei messaggi ci pare indispensabile per aumentare il tasso di trasparenza della comunicazione in rete. A dispetto di quanto sostenuto da alcuni, in materia di fake news non ci pare vi siano grandi novità rispetto a quanto accadeva in passato; la storia conosce innumerevoli falsi diffusi per finalità politiche da soggetti che celavano la loro identità, come i “protocolli dei saggi di Sion” ancora adesso citati dalla più bieca propaganda antisemita.

Oggi sono certo aumentate in modo esponenziale le fonti delle notizie. Ma, oggi come ieri, il tema decisivo ci pare la trasparenza. Il che non significa, sia chiaro, vietare tout court i messaggi anonimi, ma garantire al pubblico di conoscere almeno alcuni dati caratterizzanti la fonte dell’informazione. La possibilità ad esempio di riconoscere se un messaggio è prodotto da un individuo o è generato da un bot programmato per inquinare l’informazione consentirebbe di migliorare la salubrità dell’aria nel libero mercato delle idee.

La diffusione di fatti e opinioni dovrebbe essere favorita al massimo, poiché ciò garantisce conoscenza e pluralismo. Altrettanto importante, però, ci pare sia dare la possibilità di capire se una certa manifestazione del pensiero abbia finalità seconde, magari illecite, consentendo a chi legge o ascolta di ricostruire l’identità di chi veicola fatti e opinioni.

Il secondo problema su cui questa proposta pone l’accento è la responsabilità di quanto pubblicato on-line. Ancora una volta, vale la pena ribadire alcuni aspetti forse banali ma centrali. Nel nostro ordinamento la libertà di espressione è appunto anzitutto una libertà e più precisamente una libertà negativa, ovvero la rassicurazione dello Stato al privato che non interverrà con regole tali da condizionarne l’esercizio. La massima tutela, tuttavia, è per la manifestazione, dice l'art. 21 Cort., del «proprio pensiero», con ciò l’ombrello della più incisiva tutela si apre sulle dichiarazioni che provengono da un soggetto noto. In altri termini, l'anonimo non è vietato, ma può essere limitata la sua diffusione.

D'altra parte, lo abbiamo già scritto su queste colonne: per evitare che, nei fatti, la rete diventi un luogo ove chi è più capace o più ricco sia in grado di recare danni ad altri senza risponderne, sembrano esservi due strade. La prima: incaricare le piattaforme di fare “pulizia” degli illeciti ivi commessi; la seconda: consentire l’uso delle piattaforme stesse solo a chi si renda riconoscibile. Delle due, quest’ultima ci pare di gran lunga la soluzione migliore, anche perché la più in linea con un principio generale presente in filigrana nella nostra Costituzione.

Anche in riferimento ad altre libertà (si pensi a quella di associazione o di riunione), l’ordinamento consente la loro massima estensione, purché esercitate mostrandosi apertamente. Ci pare perfettamente in linea con la buona architettura di una società democratica, infatti, il postulato «massima libertà, esercitata da un soggetto riconoscibile, che si assume la responsabilità di ciò che fa». Insomma, ci sembra ancora perfettamente attuale il titolo di un articolo di tanto tempo fa: «Sei libero, ma dimmi chi sei».

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