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Siria, perché Assad va in soccorso ai miliziani curdi

di Roberto Bongiorni

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Truppe siriane (Afp)

Truppe siriane (Afp)

Per la prima volta dallo scoppio della guerra, si va verso lo scontro diretto tra l’esercito siriano e quello turco. Al-Assad ha colto la palla al balzo per stringere una nuova alleanza con le milizie curde, con l’obiettivo di frenare l’avanzata di Erdogan sul suo territorio

14 ottobre 2019
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4' di lettura

Era nell’aria, ma nessuno se lo augurava. In Siria si sta avverando quanto si temeva, ovvero l’apertura di un nuovo fronte con il rischio concreto di vedere, per la prima volta dallo scoppio della guerra, uno scontro diretto tra due eserciti stranieri: quello siriano contro quello turco.
Schiacciati dalla forza dell'esercito turco, il secondo per forza di tutta la Nato, le male armate milizie curdo-siriane (Ypg) hanno concretizzato le minacce fatte la scorsa settimana, chiedendo aiuto a chi, almeno sulla carta, era loro nemico: l'esercito del regime siriano guidato dal presidente Bashar al-Assad.

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Perché Assad viene in aiuto ai curdi
L'appello non è rimasto inascoltato, anzi. Al-Assad deve aver compreso quanto la richiesta di aiuto da parte delle milizie curdo-siriane fosse un'occasione da cogliere al volo. Innanzitutto perché permette alle forze di Damasco di entrare nei strategici territori curdi, e di rimanerci, senza colpo sparare. In secondo luogo perché evita che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, estenda la sua offensiva oltre gli obiettivi annunciati cercando di conquistare ampi territori della Siria. Erdogan ha detto di voler creare una zona cuscinetto lungo il confine settentrionale della Siria profonda 30 chilometri, in cui far rimpatriare parte dei tre milioni e mezzi di rifugiati presenti da anni sul suolo turco. Ma l'opinione condivisa è che le sue bellicose intenzioni siano ben più ambiziose.

In terzo luogo, perché offre il pretesto a Damasco di accelerare la conquista della roccaforte di Idlib, grazie all'aiuto dell'aeronautica russa, e mettere la parola fine all'ultimo bastione, sostenuto dalla Turchia, dove sì è ritirata l'opposizione armata siriana, in primo luogo i ribelli sunniti dell'esercito libero siriano ma anche le milizie estremiste, tra le quali i gruppi qaedisti del fronte al-Nusra.

In un conflitto ormai parcellizzato, dove da cinque anni si è combatte una guerra per procura tra le maggiori potenze mediorientali (ma anche mondiali), e dove vige il motto “il nemico del mio nemico è mio amico” le alleanze cambiano a seconda delle contingenze. È una questione di sopravvivenza. Nessun0 ha mai dubitato che i curdi fossero gli alleati di gran lunga più affidabili nella campagna internazionale contro l'Isis. Sono stati loro «gli scarponi sul terreno». Sono stati loro ad aver riconquistato , grazie anche ai bombardamenti aerei americani, le città siriane cadute sotto il giogo oscurantista dello Stato Islamico: Sinjar, Mosul, Raqqa. E sono sempre loro ad aver pagato un prezzo caro, perdendo migliaia di combattenti. La presenza americana in Siria settentrionale era una garanza per i curdi-siriani, e per l'esperimento di amministrazione diretta creato nel Rojava dal 2011.

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Mille soldati americani bastavano simbolicamente ad arginare i disegni di Erdogan. Il ritiro annunciato da Trump la scorsa settimana ha sparigliato le carte. Abbandonati dagli Stati Uniti, i curdi si sono rivolti all'unica alternativa rimasta: il regime siriano, male minore rispetto al nemico storico turco. Un nemico, tuttavia, solo sulla carta. Da quando è scoppiata la rivoluzione, nel 2011, degenerata presto in una cruenta guerra civile, tra i curdi siriani ed Assad c'è stato una sorta di tacito accordo di non belligeranza. Rispettato da entrambi. Un accordo che permetteva alle truppe siriane di concentrarsi su altri fronti e non disperdere energie in un periodo molto difficile. E ai curdi-siriani di gettare le fondamenta per il loro esperimento democratico in un territorio improvvisamente divenuto autonomo, almeno di fatto. E soprattutto estenderla.

La sconfitta di Europa e Stati Uniti
Quella curda è la mossa della disperazione. Capace di mettere la parola fine ai loro sogni di federalismo, ma probabilmente anche a quelli di autonomia. Avrebbero preferito l'Occidente al regime siriano, che li ha sempre discriminati nei decenni precedenti la rivolta del 2011.

La nuova alleanza tra Damasco e i curdi crea imbarazzo, se non dispiacere, a tutti i Governi occidentali. Ritirando i soldati, e osservando imbarazzati le forze siriane entrare pacificamente nelle zone dei curdi dove fino a poco fa avevano operato le forze di addestramento americane, gli Stati Uniti perdono l’ultima parola sullo scacchiere siriano. E al contempo offrono all’Iran la possibilità di rafforzare la sua presenza anche nella Siria settentironale.

VIDEO/L’appello dei curdi agli alleati

Così anche i Paesi europei, le cui esigue forze speciali presenti sul territorio curdo (a fine di addestramento) sono destinate a lascare presto l’area. Per non parlare dei giacimenti petroliferi siriani, sui cui le Syrian democratic forces, di cui i curdi rappresentano il 90%, erano riusciti a mettere le mani durante la loro avanzata su Raqqa. Spiazzando e prendendo in anticipo le forze di Assad, appoggiate dai russi. Anche questi destinati a cadere nelle mani del regime di Damasco.

E Putin approfitta del vuoto americano…
In apparenza, anche la Russia si trova in una situazione scomoda. Agli occhi di Mosca, la Turchia rappresenta un partner commerciale di primissimo piano (anche militare, considerando la controversa e recente vendita dei sistemi missilistici russi s-400) , ma anche un’utile pedina diplomatica in chiave anti-americana da giocare sullo scacchiere mediorientale.

Al contempo Mosca è la potenza che ha salvato il regime di Damasco, suo alleato, da una probabile sconfitta nell’estate del 2015, annunciando il mese dopo un’intervento militare per sostenere un Paese che, sul suo territorio, ospita la sola base navale russa sul Mediterraneo.
Anche il presidente russo Vladimir Putin ha davanti a sè un’opportunità da cogliere al volo.

Approfittare del vuoto lasciato da Washington per ritagliarsi ilo ruolo di unica potenza straniera presente sul campo e capace di dialogare con tutti gli attori coinvolti. D’altronde è stato proprio Putin, il protettore del regime siriano, il direttore d’orchestra dei negoziati di Astana. Vale a dire le trattative tra tre potenze straniere che hanno qualcosa da dire sulla Siria; Turchia, Iran e , per l’appunto, la Russia.

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