di Gino Ruozzi
La scrittrice italiana Laura Pariani
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«La vita è terribile e fosca, e le donne ne portano il peso maggiore». Questo lapidario aforisma è il filo rosso del nuovo romanzo di Laura Pariani. Ambientato in due periodi paralleli, nell’ottobre del 1652 e del 1672, il libro racconta il tentativo di rivolta sociale e sessuale (nelle campagne lombarde tra Busto Arsizio e il Ticino) di un gruppo di contadini contro i signori locali e le potenti truppe d’occupazione spagnole. Se si fa un piccolo passo indietro, vent’anni prima siamo nell’universo dei Promessi sposi di Manzoni, a cui Il gioco di Santa Oca allude spesso. Boschi, paludi, sabbie mobili, calamità naturali e soprattutto umane, streghe e untori, il mondo è quello sconvolto e senza idillio della «vigna» di Renzo e della terribile «colonna infame», della selva dantesca variamente rivisitata nei precedenti romanzi La signora dei porci (1999) e Milano è una selva oscura (2010). Società fondata su regole che sembrano ineluttabili e immodificabili, supremazie inscalfibili sostenute e difese da una provvidenza assai più terrena che divina.
A questo stato di cose si ribella il giovane Bonaventura Mangiaterra, che contro l’incredulità e lo scetticismo della maggioranza forma un’agguerrita banda di contadini disperati e orgogliosi, «gente di brughiera che sapeva bene che la vita l’è un gran combattimento, in cui vince chi la dura». Come un rinato Robin Hood, Mangiaterra proclama una nuova «buona novella» evangelica, «la Bella Parola» che conquista «come miele» e reclama pronta giustizia («la mano che dà da bere e da mangiare vale più della preghiera che risuona in migliaia di chiese»). I «pitòcchi» sposano l’utopia e cercano di ribaltare la propria disgraziata condizione, si oppongono alla crudeltà dell’indigenza, della sopraffazione, dell’impunità, delle armi, dell'orrenda «morte per acqua».
A narrare l’eroica e sfortunata storia dei banditi di Bonaventura, che ricordano pure tanti «banditi» della nostra Resistenza, è Pùlvara la «camminante»; ventenne aveva partecipato alle loro imprese e ora vuole tenerne viva la memoria con una fedele quanto mitica «raccontazione» e con il gioco di Santa Oca, con cui ripercorre le tappe della rivolta e il suo sciagurato destino, sperando che prima o poi la sorte possa cambiare verso. L’ansia di giustizia passa per il valore persuasivo della parola («se sai contare con la lingua sciolta, non sarai mai completamente perduto») e per il modello di riscatto e di fallimento di Giovanna d’Arco: la santità condannata e messa al rogo dall’arroganza e dalla cecità del potere, che non ha altro scopo che la perpetuazione di sé stesso.
Il romanzo è composto di tanti quadri e microracconti, vite brevi di sconfitti e dimenticati dalla storia, con paesaggi prossimi alle fantasie di Zavattini e Pederiali, i timbri etici di Vassalli. Lo stile è realistico e insieme visionario, nomi e soprannomi di persona concretamente evocativi (Simùn Gamb-avèrt, Giosafatte Vulpe, Monsù Dicis-ma-non-facis, Ciapparàtt), la narrazione proverbiale e sentenziosa («non entri tra fuso e rocca chi non vuole essere filato»; «il pane del padrone ha sette croste e un crostone»; «le acque chete son quelle che più immòllano»; «la scarsità muove il mondo»). La lingua sboccata e maccheronica, farsesca e sdegnata, truce e innocente si contrappone a quella elitaria, algida e normativa del potere, nella scia di Cecco d’Ascoli e François Villlon, Teofilo Folengo e Luigi Malerba.
Il gioco di Santa Oca
Laura Pariani
La nave di Teseo, Milano,
pagg. 272, € 18
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Gino Ruozzi
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