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I manager devono cambiare per garantire cooperazione e trattenere i talenti

di Gianni Rusconi

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(Coloures-pic - Fotolia)

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7 giugno 2019
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4' di lettura

È entrato a far parte di Bcg nel 1995 e oggi ne dirige l’Institute for Organization, è un esperto di trasformazione aziendale e fra le sue varie mansioni c’è lo studio e lo sviluppo di avanzate metodologie per aiutare le organizzazioni a dotarsi delle basi strutturali e comportamentali per il cambiamento. Con Yves Morieux, Senior Partner and Managing Director di Boston Consulting Group, abbiamo parlato di modelli organizzativi e di come si possa creare un ambiente in cui i dipendenti possano lavorare l’uno a fianco all'altro per gestire al meglio la “nuova” complessità aziendale attraverso soluzioni creative.

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La complessità aziendale si risolve con una maggiore cooperazione fra le persone?
La complessità in sé non è un problema se si è in grado di creare valore gestendola, e con essa gestire i numerosi stakeholder di un’azienda. Il problema si crea quando i manager creano complicazione organizzativa mettendo le persone in situazioni impossibili da gestire, in incubi burocratici in cui si trovano costretti ad usare le proprie capacità solo per affrontare le criticità e non per creare valore. Si calcola che tra il 40% e l’80% del tempo viene perso per fare, disfare e rivedere mentre diverse ricerche raccontano di un alto grado di insoddisfazione. Questo approccio uccide la produttività e la soddisfazione sul lavoro, e porta le persone a essere meno propositivi e ad impegnarsi meno.

Per aumentare la produttività, invece, si ricorre alla tecnologia?
Negli ultimi decenni c’è stato un calo costante della produttività nelle economie più importanti. Negli anni 50 e 60 la crescita era mediamente del 5% annuo, dal 1973 al 1983 è scesa al 3%, dal 1995 al 2008 all'1% e da quell’anno in avanti si è sotto l’1%, prossimi allo zero: tutto questo porta a un “gioco” a somma zero. In Bcg abbiamo calcolato che per un’azienda che vuole vincere sul mercato i requisiti da rispettare - e quindi elementi come velocità, affidabilità, innovazione, efficienza, business development, risk management, compliance - sono aumentati di sei volte rispetto al 1955. La tecnologia non è la soluzione, perchè ogni rivoluzione ha un aspetto di innovazione tecnologica e uno di innovazione organizzativa: senza la seconda, la prima si perde e non emerge il suo potenziale.

E poi c’è la componente culturale…
Oggi si parla spesso di nuovi modi di lavorare, di nuovi approcci come agile, lean e altri che le aziende stanno iniziando sì ad applicare, ma senza assorbirli davvero e continuando di fatto a lavorare esattamente come prima. Si cambiano i termini, ma si aggiunge di fatto un livello di complicazione. Non si cambia senza prima un cambiamento culturale.

Il modello dell’open organization può essere una soluzione? E in che modo?
Contiene elementi positivi, ma anche una grossa mancanza. Di buono c’è che prevede più autonomia per le persone, necessaria se si vuole affrontare la complessità con intelligenza; l’aspetto negativo è che non considera la cooperazione, elemento fondamentale per gestire la complessità. E non solo: spesso questi approcci dicono che, proprio in relazione all’autonomia, non servono più i manager, ma a mio avviso è un grosso errore. I manager ci devono essere, ma devono cambiare il modo di lavorare; non riescono a portare valore a causa della complicazione e delle riunioni infinite, ma non è assolutamente vero che non servono. Oggi il loro ruolo è critico in virtù della cooperazione, che non può essere misurata con delle metriche, bensì attraverso qualcuno che osserva, valuta e riconosce la cooperazione. E questo qualcuno è il manager.

Le difficoltà nella gestione dell’organizzazione incidono (negativamente) sulla capacità di attrarre e trattenere talenti?
La probabilità di minore impegno dei dipendenti è molto superiore nelle organizzazioni più complicate rispetto alle altre, perché è chiara la relazione tra complessità e il disimpegno propedeutico alla fuga. È facile attrarre, è difficile trattenere. E nulla c’entra, come si sente dire spesso, la “nuova psicologia” dei millennial. Per trattenere le persone, i manager devono cambiare il modo di lavorare e cambiare il contesto. Bisogna cambiare il contenitore, non il contenuto.

Il manager oggi deve essere più o meno leader rispetto al passato?
La distinzione tra management e leadership non credo abbia mai fatto la differenza. Ciò che conta è il valore che portano i manager. Di sicuro l’approccio non può essere del tipo “comando e controllo”, un modello che, al pari della gerarchia rigida, funzionava in un mondo semplice, ma non funziona più in un mondo complesso. Oggi, un approccio simile porta solo a contraddizioni.

Tre requisiti per un manager che deve affrontare il cambiamento imposto dalla rivoluzione digitale
Deve saper fare tre cose. La prima è quella di non iniziare dal digitale, ma dalle performance, da cosa c’è bisogno per migliorare, da dove sono i gap. Non devono farsi domande del tipo “abbiamo il giusto customer journey?” ma analizzare i problemi concreti che occorre risolvere. La seconda è identificare i ruoli critici nell’organizzazione, nei punti nevralgici che incidono sulle performance. Sono spesso nodi molto operativi, ma fondamentali. La terza è capire come creare un nuovo contesto per far lavorare diversamente le persone, e risolvere i gap analizzati.

Per concludere, un giudizio sulle aziende italiane...
Nella mia esperienza nel vostro Paese ho notato “muri” meno spessi e alti tra la leadership e i dipendenti delle aziende, e quindi c’è meno separazione rispetto alla Francia, per esempio. L’Italia è in un certo senso avvantaggiata, perché se il ruolo del manager è fatto in buona parte di osservazione e presenza, questa vicinanza aiuta. La separazione porta a gap di percezione e conoscenza, nelle aziende italiane c’è maggiore prossimità cognitiva, anche per via delle dimensioni aziendali più ridotte.

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