di Alexis Paparo - How to Spend it
Un apicoltore a lavoro per Guerlain
6' di lettura
Signora Bénard, lei ha fondato il dipartimento ambientale di LVMH dal 1992 e lo dirige da allora. Come è arrivata nel gruppo?
«Sono laureata in agronomia, con un phd in microbiologia alla Cornell University, e sono arrivata in azienda nel 1983 per lavorare sui vitigni Hennessy come ingénieur de recherche. In parallelo, ero membro di alcune Ong attente ai temi ambientali, come la Junior Chamber of Commerce. Proprio con loro ho partecipato alla conferenza della Terra di Rio nel 1992. Tornata in Francia, mi sono detta: mi piace lavorare da Hennessy, ma il problema da risolvere adesso è quello ambientale. Così ho creato, con alcuni amici, quella che oggi si chiamerebbe startup, lavorando la sera e nel tempo libero. Quando tutto, finanziamento economico incluso, era stato definito, sono andata dal mio direttore a Hennessy per licenziarmi. Che mi ha sorpreso dicendo: «Cosa ti farebbe rimanere da noi?» «Occuparmi di ambiente», ho risposto. E lui di rimando: «Facciamolo allora!». In poche settimane è nato il dipartimento, che oggi conta 100 persone, fra il mio team e le figure che, nelle maison, si occupano del tema».
Sylvie Bénard
Come si è evoluta negli anni l'attenzione verso l'ambiente nel gruppo?
«Nel 1992 il principale problema era ridurre gli sprechi e i consumi energetici dei siti produttivi. Ai tempi il gruppo era molto più piccolo e legato soprattutto a vino e distillati, ed è per questo che la connessione con la natura è sempre stata chiara, così come l'orizzonte lungo: da Hennessy si lavorava con vitigni di oltre 150 anni, chi piantava sapeva che stava lavorando per il futuro. Lì ho imparato un approccio che mi è ancora molto utile: uno dei principali problemi nei vigneti era la perdita d'acqua ma, a ben vedere, in qualsiasi azienda ci sono perdite, è normale che sia così. Se sai dove cercarle, l'anno dopo userai meno risorse e, in più, capirai quali rifiuti o sprechi vengono prodotti e come ridurli e valorizzarli al massimo. Per esempio, nel 2018, il 91% dei rifiuti è stato riciclato, trasformato in energia o riutilizzato attraverso la nostra piattaforma Cedre, a Pithiviers. Negli anni successivi dai siti si è passati ad analizzare il prodotto e a capire come rendere il tutto parte della strategia di ogni brand. La prossima grande sfida è riuscire a comunicare questo al consumatore, aiutarlo a porsi le domande giuste quando acquista».
Come è cambiato il rapporto con le maison? Il percorso di sostenibilità è vissuto come una costrizione?
«Fino a 5-10 anni fa, anche prendere un appuntamento con i ceo era difficile. Da un paio d’anni invece è normale, tutti vogliono capire come essere coinvolti. Almeno una volta l'anno tutte le maison devono preparare un piano strategico in cui la sostenibilità è inclusa e in cui si dà conto del percorso per raggiungere gli obiettivi del piano LIFE 2020 (ridurre del 10% l'impatto di tutti i prodotti; applicare gli standard definiti internamente al 70% dei fornitori, per raggiungere il 100% entro il 2025; ridurre le emissioni di CO2 del 25% e migliorare le performance di tutti i siti produttivi del 10%, ndr). Per chi si occupa del marketing, magari persone che hanno lavorato per 25 anni nello stesso modo, è un po' più difficile cambiare l'impostazione. Sanno che va fatto, ma non sanno come. Ecco perché stiamo lavorando molto con queste persone, per rassicurarli e aiutarli a porsi le giuste domande. All'inizio alcuni possono avere l'impressione di ritrovarsi con un campo di gioco più ristretto, ma in effetti lo stiamo ampliando! Stiamo creando nuovi spazi per la creatività».
Come si traduce la teoria in pratica nella giornata lavorativa dei dipendenti?
«Quattro anni fa abbiamo creato la nostra Environment Academy. Avremmo potuto trovare fuori da Lvmh dei corsi per i dipendenti, ma non sarebbero stati connessi al 100% a quello che facciamo qui. Uno degli obiettivi del mio dipartimento è aiutare ogni altro dipartimento a capire il peso delle proprie decisioni, dei materiali che usano, del packaging e dar loro gli strumenti per trovare in autonomia la soluzione migliore. Dai training di base - cos'è la biodiversità, cos'è il climate change, cosa vogliono dire queste cose per la mia maison, come posso migliorare l'impatto del mio lavoro – poi ci sono training sulle normative ambientali di ogni Paese in cui produciamo e vari corsi per i purchasing manager, eco design ecc. Sono aperti a tutti e anche i nostri top manager li frequentano».
Qualche esempio di come le varie maison si stanno muovendo?
«Penso a Colonia Pura, il primo prodotto di Acqua di Parma di cui è stato tracciato interamente il ciclo di vita, e il progetto pilota, tutto italiano, di riutilizzo, recupero in termovalorizzazione e riciclo dei rifiuti del dipartimento cosmetici e profumi Bulgari. Louis Vuitton, Céline Maroquinerie, Loewe e Baby Dior hanno iniziato a usare regolarmente il cotone certificato Better Cotton. Da Veuve Clicquot, Moët & Chandon e Hennessy si lavora con trattori elettrici e si preferisce il trasporto su rotaia. Si vedono, adesso, i risultati di anni di lavoro. Per esempio, con Guerlain: l'ultimo passo è la piattaforma di tracciabilità dei prodotti Bee Respect (accessibile tramite qr code e al momento attivo su 65 prodotti, ndr), ma potrei citare il progetto di tutela delle api nere di Ouessant, i cicli di conferenze della Bee University, l'eco-design per tutti i nuovi prodotti, l'obiettivo della carbon neutrality entro il 2028».
La scuola Central Saint Martins di Londra ha da poco lanciato il primo master in biodesign in partnership con LVMH. Quali risultati si aspetta?
«È un programma a medio termine. Quando si lavora con la scienza servono almeno due o tre anni di sperimentazione e sviluppo. L'idea è avere i primi materiali tra due o tre anni, e iniziare poi a introdurli nelle maison tra quattro o cinque anni utilizzando processi di biotecnologia, fermentazione, ma la condizione è che i risultati abbiano la stessa qualità che hanno gli altri materiali. Eppure, se potessi decidere di cambiare qualcosa adesso, con uno schiocco delle dita, non sarebbe dare vita al materiale perfetto, il più sostenibile, ma cambiare il comportamento umano: portare tutti a consumare meno e consumare meglio».
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Il gruppo ha prodotto più di 376mila tonnellate di CO2 nel 2018. Cos'è l'Lvmh Carbon Fund e qual è la strategia per migliorarne l'efficacia?
«È stato lanciato nel 2016 ed è alimentato da un contributo di 30 euro a tonnellata di CO2 che ogni maison versa in funzione delle emissioni di gas serra generate dai propri siti produttivi e negozi. È uno dei progetti di cui sono più felice perché è pedagogico. Almeno una volta all'anno ogni ceo deve chiedersi cosa sta facendo per il cambiamento climatico e quanta CO2 sta producendo. In più, è un progetto condiviso con il dipartimento finanziario, quindi coinvolge davvero tutto il gruppo. Oltre a lavorare sulla riduzione progressiva dei nostri consumi, stiamo acquistando energia proveniente da fonti rinnovabili in Francia e Italia, lo stiamo per fare anche negli Stati Uniti e ci piacerebbe farlo anche in Cina. Così si riducono le emissioni dirette (nostre) e indirette (dei nostri fornitori)».
Una delle iniziative ambientali del gruppo che ritiene più di successo?
«Insieme al Carbon Fund, il progetto Lvmh Lighting, grazie al quale oggi 300mila metri quadrati, fra siti produttivi e store, sono illuminati a Led. Se si considera che il 70% delle emissioni di CO2, dirette e indirette, del gruppo sono legate al consumo di energia nelle 4.370 boutique, si capisce quanto fosse importante per noi agire qui».
Come si diventa un Environmental manager oggi? Quali sono le tre qualità più importanti che richiede il lavoro?
«Agronomia e in generale le “life science”, mi hanno dato una visione olistica, la consapevolezza che siamo il frutto di un equilibrio delicatissimo che va mantenuto. Ed un piacere vedere sempre più persone, all'interno del gruppo Lvmh, ma anche esperti o consulenti esterni, venire da questi settori. Fra le qualità di un buon manager ambientale considero importanti la tenacia, l'attitudine pedagogica, ovvero il continuare a spiegare, spiegare, spigare e l'esemplarità. Se mi fossi presentata all'incontro con la mia bottiglietta di plastica, qualsiasi cosa detta dopo sarebbe diventata subito poco credibile».
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Cos'è per lei la sostenibilità?
«Mi piace molto la definizione coniata da Gro Harlem Brundtland (ex primo ministro della Norvegia e presidente della Commissione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo dell'Onu dal 1983 al 1987, ndr).
Ma quella completa! Lo chiedo anche agli esperti con cui valuto di collaborare, per selezionarli. Il 90% risponde che «è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Quando si fermano qui, li ringrazio, ma spiego che non posso lavorare con loro. Perché la definizione intera prosegue: «Ci sono due concetti chiave: quello di bisogni, in particolare quelli dei poveri del mondo, ai quali deve essere data priorità, e l'idea di limite, imposto dalla tecnologia e dalle organizzazioni sociali sulle capacità dell'ambiente di soddisfare le esigenze presenti e future». Ecco perché la sostenibilità è difficile. Si ha a che fare con le necessità delle persone, l'economia e la società, e tutto deve lavorare insieme».
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