di Maria Grazia Mattei
(EPA)
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Rafforzare il “capitale umano” dell'Italia sul digitale: un appello che sentiamo fare continuamente. La perifrasi è tratta dal DESI, l'Indice di digitalizzazione dell'economia e della società con cui la Commissione Europea monitora la competitività digitale degli stati membri. Ma cosa significa davvero?
Con capitale umano digitale si intende il livello di competenze digitali in possesso della popolazione di ogni singolo paese EU. ll nostro Paese “registra carenze significative”, come si legge nel report DESI rilasciato nel giugno scorso. I dati sono inequivocabili: il punteggio medio in Europa è 49,3 e l'Italia si attesa al 32,5. Una performance su cui hanno pesato i pochi laureati ICT - di cui le donne sono una percentuale bassissima -, la lenta integrazione di percorsi ed iniziative per l'alfabetizzazione digitale nel mondo della scuola e del lavoro, il modesto utilizzo da parte dei cittadini dei servizi pubblici digitali, in generale, delle opportunità della rete.
Nei mesi scorsi il nostro paese è stato spinto ad una “metamorfosi digitale” obbligata, una vera sperimentazione collettiva avviata senza strategia né paracadute. Ci sono stati dei passi avanti che il DESI 2020 non ha avuto il tempo di registrare, ma niente illusioni: il digital divide - ovvero il divario infrastrutturale e tecnologico nell'accesso e nell'uso delle tecnologie digitali – non è scomparso, anzi. È diventato semmai ancor più “pericoloso” perché, lungo lo stivale, si sono acuite o create sacche di esclusione sociale, educativa e professionale fra chi è onlife e chi non lo è.
Il patrimonio nazionale in fatto di competenza digitale resta generalmente scarso, ma con la giusta visione, azioni efficaci e sforzi congiunti fra Pubblico e Privato è possibile accrescerlo in un processo che vada a beneficio di tutti. Per prima cosa, serve un cambio di paradigma.
L'alfabetizzazione strumentale più o meno avanzata all'uso delle tecnologie non è sufficiente. Ai bambini e ai ragazzi vanno offerte competenze analitiche e anche critiche rispetto al digitale come enzima per acquisire e sedimentare nozioni e competenze con modalità fluide, sovrapposte, interattive, proprio com'è nella nostra vita quotidiana fatta di “finestre”, conversazioni, relazioni complesse.
Agli adulti serve la consapevolezza del digitale quale risorsa per il singolo e la comunità in termini di sapere condiviso, intelligenza collettiva e cittadinanza consapevole, superando gli steccati fra gli addetti ai lavori iper specializzati - penso ai cosiddetti tecnologici - la cui digital literacy è avanzatissima, e i “normali” utilizzatori chiamati ad una sfida di autoapprendimento talvolta estenuante.
Alle imprese vanno garantite occasioni per fertilizzarsi con pratiche e modalità di innovazione attraverso la creatività grazie all'integrazione di artisti e giovani talenti digitali nei team di ricerca e sviluppo delle imprese stesse nella stessa misura in cui già avviene nell'ambito pubblicitario e comunicativo.
È per questo che è nato MEET, il centro di cultura digitale - uno spazio di 1500 metri quadri nel cuore di Milano che aprirà il prossimo 28 ottobre - reso possibile dal supporto di Fondazione Cariplo. Cultura Digitale significa “esporre” le persone all'innovazione con una visione olistica attraverso mostre, incontri, percorsi formativi e di future thinking, servizi di produzione creativa, di comunicazione, performing art.
Sono tanti gli attori e i fattori del cambiamento che viviamo ogni giorno: non solo i giganti della tecnologia, dei social network o dell'e-commerce, ma anche i teorici e i professionisti di discipline diverse (scienziati, artisti, sociologi, tecnologi, ricercatori),i bisogni emergenti della società e ovviamente i materiali, le tecnologie e gli strumenti nuovi.
Per capire il processo in atto e arricchire il nostro capitale umano, occorrerebbe anche rintracciare il filo rosso che lega i pionieri digitali del Novecento ai Big Tech della Silicon Valley; occorre maturare una cornice culturale ampia e transdisciplinare. Le sorgenti storiche e culturali – chiamiamole “radici del nuovo” - che dagli anni Cinquanta conducono fino a questo 2020 così digitalizzato, restano poco o per nulla conosciute ma sono essenziali. Solo muovendo da questa prospettiva è possibile superare la tendenza ad un'adozione acritica dell'ultima novità digitale e costruire una consapevolezza culturale scevra dalla paura della Tecnocrazia o da rigurgiti di Neoluddismo.
“Le alfabetizzazioni digitali sono transitorie” ha ben riassunto Doug Belshaw, uno dei più noti studiosi di digital literacy al mondo. Belshaw intende dire che strumenti in uso oggi saranno certamente obsoleti fra qualche anno e forse anche le relative competenze. A non invecchiare mai sarà, invece, la comprensione di un sapere ben più vasto e articolato del singolo device. Un bagaglio di consapevolezza destinato a durare per tutta la vita.
Crediamo che l'Italia debba muoversi al più presto in questa direzione per accompagnare la transizione del paese verso una società digitale matura.
Fondatrice e Presidente MEET Digital Culture Center
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