di Vittorio Lingiardi
Vincenzo Paolo Bonomini (1757-1839), Macabri (particolare), Bergamo, Chiesa di Santa Grata inter Vites (Photo by DeAgostini/Getty Images)
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La prima volta che ho avuto la percezione di un osso fu quando il mio pediatra mi fece sedere gambe a penzoloni, mi toccò la rotula e con un martelletto mi assestò un colpetto appena sotto, suscitando il famoso riflesso patellare. Quel movimento involontario mi aveva divertito, quell’osso rotondo e mobile mi aveva incuriosito. Le ossa e il sistema di muscoli, tendini e cartilagini che le tiene unite ci sorreggono tutta la vita e ci offrono una postura, anche psichica. Poi, col passare degli anni, iniziano a scricchiolare. La mattina, al risveglio, ci massaggiamo le mani per attenuare quella sensazione artrosica di umido gonfiore che ambirebbe alla cura di un clima desertico. Col tempo i margini articolari si erodono e dalle ossa gemmano becchi, spine e speroni. L’osteoporosi ci rende fragili, i femori si frantumano. C’è da dire che anche le ossa dei giovani sportivi, sciatori e calciatori, finiscono spesso in chirurgia ortopedica.
Lo scheletro umano è una delle croci dello studente di medicina perché è formato da più di duecento ossa (e 68 articolazioni) e, almeno ai miei tempi, bisognava impararle tutte a memoria. Studiavamo su bellissime tavole anatomiche, ma presto arrivarono le costose riproduzioni tridimensionali. Soppesando crani di plastica ci sentivamo tutti degli Amleto.
Il libro più curioso sulle ossa si intitola Osteographia or the Anatomy of Bones e fu scritto nel 1733 da un chirurgo inglese, William Cheselden. Piuttosto stravagante, contiene disegni di scheletri umani che si mettono in posa, pregano, danzano, ma anche scheletri di gatti che soffiano e cani che dormono. I nomi delle ossa sono così belli che è un peccato non elencarli tutti.
Sembrano costellazioni del cielo, grandi e piccole divinità, e vien subito voglia di dedicar loro un poema in 206 stanze, una per osso. Faccio una lista alfabetica minima: atlante, clavicola, epistrofeo, ioide, omero, radio, sacro, sfenoide, tibia, temporale, ulna, zigomo; poi c’è il microcosmo degli ossicini dell’orecchio: martello, incudine e staffa; infine le minuscole ossa della mano e del piede: ventisette per la mano, tra cui: semilunare, piramidale, capitato, uncinato, pisiforme, e una in meno per il piede, che contempla astragalo, calcagno, cuboide, navicolare...
L’incontro con le ossa, spesso lo facciamo da bambini, è sempre stupefacente: la bandiera nera dei pirati, teschio e tibie incrociate; il fumetto Kriminal (per chi viene dagli anni Sessanta); il simbolo inequivocabile del veleno sulle bottiglie da non toccare; i cannibali politicamente scorretti dei cartoni animati con l’ossicino nel naso; la prima radiografia e il mistero del nostro corpo in controluce; i teschi heavy metal sulle t-shirt nere; le teche dorate con le reliquie dei santi, magari un dito o un dente; i fossili nei musei col loro immobile fascino paleontologico; l’inutile teschio miliardario di Damien Hirst, coperto di diamanti; l’osso più simbolico del cinema, impugnato dalla scimmia di 2001 Odissea nello spazio.
A Palermo, nelle Catacombe dei Cappuccini, ci sono ossa di ogni età, compresi scheletrini d’infanti vestiti di tutto punto. E poi gli ossari di guerra, veri templi della distruttività umana, come quello italiano di Redipuglia o quello francese di Douaumont con i resti di più di centomila soldati di Verdun. Dopo le ossa minacciose dei pirati e dei tralicci e quelle dolorose della guerra, rallegriamoci con gli scheletri del Día de los Muertos, la festa messicana gaiamente macabra e ben più interessante del noioso Halloween (se non nella sua contaminazione natalizia concepita da Tim Burton in Nightmare Before Christmas).
Una deliziosa versione animata Pixar del Giorno dei Morti è Coco, con la sequenza dello scheletro sfavillante di Frida Kahlo che balla con le sue scimmie. A proposito di danze, gli scheletri ballerini sono un classico, la loro agilità li rende provetti danseurs di danze macabre: dalla febbrile Skeleton dance del 1929 di Walt Disney alla pacifista Ballad of the skeletons che Allen Ginsberg ha messo in musica con Paul McCartney e Philip Glass. Ma prima di loro Sain-Saëns e Listz e dopo di loro gli Iron Maiden e Capossela.
Che proprio l’anno scorso profeticamente cantava: «Viene la danza macabra/ compagna della Morte/ prende la carne viva/ e lascia le ossa torte». Attrici di festa, di monito e cordoglio, le ossa attraversano la nostra pittura: memento mori nell’angolo di una tela medievale, Trionfo della morte di tradizione alpina ma non solo (se siete al Nord guardate quello splendido di Clusone, ma al Sud non trascurate quello palermitano di Palazzo Abatellis), ambigua vanitas nei quadri del Seicento.
Come abbiamo visto per tutti gli altri nostri sistemi viventi, anche l’apparato osteo-articolare entra nel linguaggio in forme potenti e domestiche: essere ridotti all’osso, rompersi l’osso del collo, essere pelle e ossa, farsi le ossa, avere uno scheletro nell’armadio...
Sempre nascoste, avvolte dai muscoli e coperte dalla pelle, le ossa custodiscono i segreti evolutivi della nostra storia individuale e collettiva (non volete bene allo scheletro australopiteco della nostra progenitrice Lucy?) e celebrano l’immaginario religioso e culturale di ogni popolo (oltre alle reliquie, le ossa compaiono in armi, gioielli e strumenti musicali).
Nonostante lo stretto rapporto che abbiamo con le nostre ossa - toccandoci, le sentiamo in continuazione - siamo portati a considerarle la nostra parte inanimata. Non è così: vivissime e piene di cellule (osteoblasti, osteociti, osteoclasti), quando si rompono, in fratture composte, scomposte, comminute, oblique e così via, attivano vivaci processi di riparazione.
Come sanno i paleontologi, rigonfiamenti, callosità e incrinature raccontano la storia del proprietario di quello scheletro. Le ossa non soffrono solo quando si rompono, ma anche quando si infettano (osteomielite), si deformano (Morbo di Paget), si deviano o si torcono (scoliosi e lordosi, ma anche alluce valgo e piede torto).
Purtroppo possono sviluppare tumori (condrosarcomi e osteosarcomi) e poiché nelle loro trabecolate cavità custodiscono il midollo osseo, tessuto fondamentale con la funzione di produrre le cellule del nostro sangue, anche lì possono ammalarsi in vari modi che si chiamano mielodisplasie.
Pur rendendoci simili nella struttura, le ossa ci fanno tutti diversi: alti o bassi, atticciati o leggiadri. E ora guardatevi la mano: le sue ossa, la forma e la lunghezza delle dita, le nocche. Simile a quella di tutti i primati, ricorda però in modo struggente quella di vostro padre o di vostra madre.
La storia racconta che qualcuno, per cattiveria o per vanità, si è accanito contro le ossa: dalle trapanazioni craniche per espellere i diavoli alle costrizioni estetiche procurate da corsetti o fasciature del piede, come nell’antica Cina che Lisa See racconta nel romanzo Fiore di neve e il ventaglio segreto. Le ossa tengono traccia dei traumi subiti, degli alimenti e persino di alcune esperienze. Sono un’eredità e raccontano storie: dai resti di antiche sepolture abbiamo ricostruito la storia di uomini, donne e popoli d’un tempo. Siamo polvere e in polvere ritorneremo, ma proprio le ossa, in circostanze favorevoli, riescono a evitarci, anche per milioni di anni, il destino pulviscolare.
Se, come scrive il poeta Dylan Thomas, verrà un giorno in cui «la morte non avrà più dominio» e «i cadaveri nudi saranno una sola cosa» col vento e con la luna, allora scompariranno anche le «ossa spolpate» e i nostri morti «ai gomiti e ai piedi avranno stelle».
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