di Piero Fornara
Turchia, Draghi: molto dispiaciuto per umiliazione von der Leyen
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L'esclamazione, che ogni tanto fa capolino nella stampa e nella saggistica anglosassone, viene attribuita al presidente democratico degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, che risollevò la nazione dalla crisi del 1929 con il New Deal e la guidò nella Seconda guerra mondiale (morì nell'aprile 1945, poco prima della vittoria alleata sulla Germania e sul Giappone). «He may be a son of a bitch, but he's our son of a bitch» che possiamo sintetizzare in italiano così: è un bastardo, ma è dei nostri!
Il riferimento riguardava un dittatore dell'America latina: probabilmente Anastasio Somoza García, presidente del Nicaragua dal 1937 al 1947, che iniziò la dinastia della famiglia Somoza fino alla rivoluzione sandinista di Daniel Ortega del 1979. Ma il “bastardo” di Roosevelt poteva essere anche il dittatore della Repubblica Dominicana generale Rafael Trujillo, insediatosi a capo del paese nel 1930 e di fatto rimasto al potere fino al 1961, quando fu ucciso in un attentato.
Dopo il 1945, negli anni del conflitto Est-Ovest e della lotta contro il comunismo nel mondo, non sono mancati altri esempi di rooseveltiani “sons of a bitch” in America latina come in altri continenti: da Cuba al Cile, dall'Iran al Sud Africa, dal Vietnam alle Filippine. Una parola, pronunciata ieri verso la chiusura della conferenza stampa da Mario Draghi, ha innescato un caso diplomatico con la Turchia, dopo l'episodio della mancata sedia per la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen in visita ad Ankara. «Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell'esprimere la propria diversità di vedute e anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese» ha dichiarato il presidente del Consiglio.
Dunque sincerità, ma anche Realpolitik nei rapporti internazionali. Riavvolgiamo la bobina della storia di una dozzina d'anni: nel 2009 l'Italia ha la presidenza di turno del G8 e riunisce i capi di Stato e di governo all'Aquila, pochi mesi dopo il disastroso terremoto di aprile. Al pranzo ufficiale in onore dei partecipanti, come si vede nel prospetto distribuito ai giornalisti in sala stampa, di fronte al presidente della Repubblica Napolitano e di fianco al presidente del Consiglio Berlusconi siedono a destra Obama e a sinistra, nell'ordine, Mubarak, Lula da Silva e Gheddafi. Tutti e tre torneranno in Italia in novembre per il summit mondiale dell'alimentazione, organizzato dalla Fao. Gheddafi sbarca all'aeroporto di Ciampino scortato dalle inseparabili “amazzoni”, le sue guardie del corpo rigorosamente donne. E domenica sera 15 novembre organizza un grande ricevimento anche con 200 giovani donne italiane: tutte alte e belle, ma niente minigonne e scollature eccessive.
Trascorrono meno di due anni: la rivolta di piazza Tahrir al Cairo, nel febbraio 2011, costringerà alle dimissioni Mubarak, al potere in Egitto dal 1981. Ma il vecchio rais, dopo essere stato condannato all'ergastolo nel 2012, verrà riabilitato alcuni anni dopo e, quando morirà più che novantenne nel 2020, sarà sepolto con gli onori militari. A Gheddafi toccherà la sorte peggiore: in Libia crollerà il suo regime e lui verrà brutalmente ucciso in ottobre. Anche il brasiliano Lula Da Silva era in carcere per corruzione dal 2018, ma poche settimane fa la Corte Suprema ha annullato le sue condanne e adesso, all'età di 75 anni, si è detto pronto a riprendersi il Brasile.
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