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Fabiano Fabiani: quelle privatizzazioni del 1992, Finmeccanica e i no a Draghi

di Paolo Bricco

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Fabiano Fabiani (ritratto di Ivan Canu)

Fabiano Fabiani (ritratto di Ivan Canu)

A 90 anni l’ultimo dei boiardi di Stato rivendica con orgoglio il ruolo «fondamentale» dell’industria pubblica «nella crescita del Paese»

19 ottobre 2020
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6' di lettura

«Mario Draghi, che era direttore generale del Tesoro e quindi membro del comitato di presidenza dell'Iri, mi incontrava nei corridoi e mi chiedeva: “Oggi che cosa hai venduto?”. Era il tempo delle privatizzazioni. Ero a capo di Finmeccanica. Io e Draghi avevamo consuetudine e un buon rapporto. Scherzando, ma non troppo, gli rispondevo con una espressione irriferibile. La sostanza della mia replica era sempre: “Non ho venduto nulla”».

Con Fabiano Fabiani, classe 1930, siamo nel cuore di due fenomeni centrali nella storia del Paese e della sua identità attuale, dei suoi punti di forza e delle sue fragilità, di ogni ipotesi di futuro e di ogni vincolo a quel che sarà: la Rai – la politica e la cultura – e Finmeccanica, cioè l'industria («è stato un errore cambiare il nome in Leonardo dopo i guai giudiziari, per tutti rimane Finmeccanica»). Fabiani è uno strano ircocervo: è stato un giornalista (direttore del Tg1 e poi dei programmi culturali della Rai) e un manager pubblico, raro caso di una doppia identità coltivata in ambiti tanto differenti con uguale determinazione e successo.

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Quell’invito al «rigore» che fece perdere alla Dc il 5%

Da Ercoli 1928, una drogheria del quartiere Prati trasformata da tempo in ristorante, è vestito in jeans, con una camicia a quadrettoni e una giacchetta verde senza le maniche. Sembra appena tornato dalla Maremma: «E, in effetti, io e mia moglie Lilli abbiamo passato a Capalbio tutta l'estate. Ormai siamo nella stagione della vita in cui, oltre ai quattro figli e agli otto nipoti, nella casa delle vacanze arrivano anche le loro fidanzate, carine e simpatiche. A un certo punto, eravamo in diciannove. Per fortuna che, nel casale, abbiamo sistemato e ristrutturato la porcilaia. Naturalmente, in maniera legale», aggiunge con il moralismo ironico del democristiano di sinistra che ha l'urgenza di porre un limite – per sé e per gli altri – all'ineleganza e al male del mondo, ma che sa come funzionano le cose in Italia e che, ancora adesso, sorride quando ti racconta: «Nel 1983, nel nostro ruolo di consiglieri – grazie a un suggerimento di Nino Andreatta – del segretario della Dc Ciriaco De Mita, io, Roberto Ruffilli, Romano Prodi e Giuseppe De Rita indicammo nel termine “rigore” la parola chiave delle elezioni politiche. De Rita, che è un romano disincantato, non era tanto convinto della scelta. Va bene che il Psi era in grande crescita, ma la Dc perse il 5% dei voti, gli italiani non apprezzarono quel nostro invito appunto al rigore».

Le privatizzazioni degli anni 90

In questo locale i romani comprano al bancone formaggi e salumi, carni di cacciagione e bottiglie di vino oppure si siedono ai tavoli, a consumare pasti che sono rapidi, ma non frugali. Prima di leggere il menù e la carta dei vini, Fabiani completa il suo pensiero critico sull'epoca delle privatizzazioni: «Era il 1993. Gli altri Paesi europei, in cambio del sì al nostro ingresso nell'unione monetaria, avevano chiesto la messa in sicurezza dei conti nazionali, attraverso la riduzione della spesa pubblica, la chiusura delle componenti in perdita dell'Iri e la cessione sul mercato di pezzi buoni del patrimonio industriale di proprietà dello Stato. Erano condizioni essenziali per ridurre l'entità del debito pubblico e per diminuire lo spread fra i Btp italiani nominati in lire e i Bund tedeschi nominati in marchi. Il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi e il direttore generale del Tesoro Draghi credevano profondamente nella unificazione monetaria a completamento del progetto comunitario e, dal punto di vista tecnico, rispondevano con scelte puntuali a un vincolo esterno, seppur da loro condiviso.

Noi di Finmeccanica facevamo l'opposto. Continuavamo a operare per la costruzione di un gruppo industriale integrato fra il militare e il civile. Ampliavamo il peso di quest'ultimo. Crescevamo per linee interne e per linee esterne. Fra le tante operazioni, attraverso la Elsag comprammo prima negli Stati Uniti la Bailey e poi, a metà anni Novanta, con la neonata Elsag Bailey Process Automation, andammo in Germania a rilevare dalla Mannesmann la Hartmann & Braun, investendo un miliardo di marchi, l'equivalente di 1.150 miliardi di lire».

L’ultimo dei boiardi di Stato

Il cameriere di Ercoli 1928 porta un piatto abbondante di salame felino, prosciutto crudo toscano al coltello, Parma tagliato fine, mozzarella e formaggi, con miele di acacia e composte di frutta. Fabiani, a novant'anni, è l'ultimo dei boiardi di Stato: «Un'espressione inventata, ricalcandola dalla storia russa, dal mio amico Eugenio Scalfari». L'industrializzazione italiana è stata realizzata nel Novecento dallo Stato Imprenditore e dalle famiglie del capitalismo settentrionale («anche se, sulla loro crescita, ha influito la funzione regolatoria della Mediobanca di Enrico Cuccia che, non vorrei sembrare dissacrante, in fondo ha costruito un poco l'Iri del Nord»).

Il rapporto tra economia e società, politica e industria

La geografia è mutata. Il mondo è cambiato. In mezzo ci sono state la globalizzazione e la moneta unica. Sono tutti morti. Ma, in Fabiani, si avverte un orgoglio per un meccanismo di rapporto fra economia e società, politica e industria che, in alcune sue parti, ha funzionato bene: «Oscar Sinigaglia nell'acciaio. Guglielmo Reiss Romoli nella telefonia. Enrico Mattei all'Eni. Ettore Bernabei in Rai. Fedele Cova con l'Autostrada del Sole. E, dopo, Ernesto Pascale alla Stet, che ebbe l'intuizione di cablare tutta l'Italia quarant'anni prima degli altri con il progetto Socrate, una strategia visionaria uccisa in culla. Hanno avuto un ruolo fondamentale nella crescita del Paese. E non hanno malversato. Un importante dirigente di lungo corso come Franco Viezzoli, che dalla Società Autostrade dove ero andato dopo la Rai mi aveva portato in Finmeccanica e che sarebbe diventato anche presidente dell'Enel, è morto povero».

La deriva degli anni 80

Nessuno nega la deriva degli anni Ottanta, con la forza significativa dei partiti («anche se non tutto era identico, quando nel 1987 Giuseppe Glisenti arrivò alla presidenza di Finmeccanica ci chiese la doppia versione dei bilanci, voleva capire in che modo pagassimo i partiti, rimase stupito quando gli dicemmo che la versione dei bilanci era una e una sola, era così, non facevamo alcun trasferimento occulto»), con la crescita ipertrofica dell'Iri, con le inefficienze tremende di alcune sue parti e con la trasformazione dell'Efim in un magnete nero che avrebbe prodotto perdite per 18mila miliardi di lire. A fine anni Ottanta nasce il progetto della Grande Finmeccanica, condotto appunto da Fabiani come amministratore delegato, secondo la ratio strategica di concentrare gradualmente nella allora finanziaria statale la manifattura pubblica tecnologicamente avanzata presa dalla Stet su indicazione di Romano Prodi e successivamente, su indicazione del presidente del Consiglio Giuliano Amato, dall'Efim, il cui nocciolo duro industriale venne salvato dal fallimento finanziario degli anni Novanta con il conferimento delle attività produttive sane proprio a Finmeccanica. «Per noi – dice Fabiani – la chiusura del cerchio fu la quotazione in Borsa del 1993, concordata con Prodi, presidente dell'Iri. Fatta in quel modo, la privatizzazione ha funzionato. Lo stesso non si può dire con quella della Telecom del 1997».

In tavola arriva la carne. Fabiani prende una tartare di angus, io un pollo ai tre peperoni. La storia italiana è corposa come il dolcetto che beve lui. E, in apparenza, è facile e semplice come il chianti classico che bevo io. In realtà, nella nostra vicenda di lungo periodo ogni cosa è sempre molto complicata. Anche perché tutti sanno sempre tutto. Tutti hanno sempre ragione. Nessuno, però, legge le carte e analizza i numeri. E, questo, vale anche nel campo di Agramante che sta sul confine fra economia pubblica e economia privata, una delle principali contraddizioni dell'identità italiana, con un popolo diviso fra la vocazione individuale all'imprenditorialità più naturale e l'impulso collettivo a considerare lo Stato azionista e prestatore di ultima istanza di qualunque inefficienza ed errore, privato o pubblico che sia.

La vendita dell’Alfa Romeo

In un Paese che pratica le doppie verità, spesso la cronaca economica e politica si trasforma in fiction, trama romanzesca in cui il non detto prevale sul detto. Sempre la storia si colora di fantasia e si incupisce di tinte noir. A proposito di questa costante liquefazione del dato storico, Fabiani racconta un passaggio critico per gli assetti profondi del nostro Paese: «Ho gestito, come amministratore delegato di Finmeccanica, la vendita dell'Alfa Romeo nel 1986. La finanza di impresa dell'Alfa era in grave dissesto. Ford voleva però acquisirla per risanarla e per entrare in Italia. L'Avvocato Agnelli e Cesare Romiti fecero una offerta finanziariamente migliore».

Andò proprio così: «La riunione decisiva a New York con i banchieri incaricati di valutare le due offerte durò non più di quindici minuti. La componente economica era troppo più elevata. Fiat pagò l'acquisto dell'Alfa e spesò anche la conservazione del monopolio nel Paese». E, così, andò male sia alla Fiat sia all'Italia, perché più concorrenza sarebbe stata utile a entrambe. Ma, come diceva Manzoni, del senno di poi ne son piene le fosse.

La scienza degli addii

È l'epilogo del pranzo. Io prendo un tiramisù. Lui un gelato al limone. Il poeta russo Osip Mandel'štam scriveva: «Ho imparato la scienza degli addii». «Sono andati via tanti amici miei. Ettore Scola, Enzo Golino, Andrea Barbato, Brando Giordani, Enzo Siciliano, Alberto Ronchey, Alfredo Reichlin. Io, però, non mi sento solo. A casa che mi aspetta ho mia moglie Lilli. E, io e lei, abbiamo i nostri figli e i nostri nipoti». Lo dice senza malinconia e quasi con una felicità piena di pudore, da uomo che non è stato svuotato e trasfigurato dalle durezze del potere e dalla solitudine delle responsabilità. In attesa di un'altra estate in Maremma, «perché, sa, i nipoti qualche volta arrivano con fidanzate nuove...».

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