di Davide Colombo
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Nove paradisi fiscali attraggono ogni anno il 42% degli investimenti diretti esteri globali (Ide) e oltre il 40% dei profitti realizzati dalle multinazionali, con un profit shifting di circa 741 miliardi l’anno sottratti alle altre economie. Per l’Italia questo dumping fiscale si traduce in una perdita di gettito attorno ai 6,4 miliardi annui, su 27 miliardi di profitti registrati in dollari statunitensi. La Germania perde il 26% del gettito della tassazione sugli utili d’impresa, la Francia il 22%, l'Italia il 15 per cento.
È il dato politicamente più clamoroso rilanciato dalla 31esima edizione del Workshop Finanza 2020 organizzato da The European House-Ambrosetti. «Fare i frugali con i soldi degli altri diventa insopportabile in una condizione di emergenza», ha affermato Valerio De Molli, Ceo del think tank privato. Una denuncia raccolta in primis dal direttore del Sole 24 Ore, Fabio Tamburini, che ha assicurato un impegno del quotidiano per sostenere una battaglia «affinché l’Europa metta fine a questa situazione da ’furbetti del quartierino’ che non può più andare avanti così».
Un punto di vista condiviso dagli altri ospiti del convegno, a partire dal sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta. L’economista Carlo Cottarelli pure ha parlato di «competizione fiscale disonesta che va affrontata. Tra questi Paesi c’è l’Olanda, il Lussemburgo, l’Irlanda e la loro bassa tassazione sui profitti delle imprese non è giustificabile», ha affermato, ma ha poi insistito anche sui compiti da fare a casa. «Giusto combattere i paradisi fiscali ma non diventi un alibi - ha detto -. Qui servono riforme strutturali, l’Italia è al 170° posto da 20 anni nella classifica dei 180 Paesi monitorati dall’Fmi per capacità di crescita».
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Secondo gli ultimi dati presentati il 20 novembre Paesi Bassi, Lussemburgo, Hong Kong, Svizzera, Singapore, Irlanda, Bermuda, Isole Vergini Britanniche e Isole Cayman assorbono quella elevata quota di investimenti nonostante generino nel loro insieme solo il 3,2% del Pil mondiale. Gli investimenti esteri sono effettuati tramite Special purpose entities (Spes), società finanziarie con scarsa, o addirittura nulla attività economica diretta (produzione, dipendenti, eccetera) nel Paese di insediamento, e queste società solo create con soli scopi finanziari. «Fra il 2005 e il 2019 – si legge nel Rapporto presentato - il 75,8% degli Ide in entrata nei Paesi Bassi era costituito da investimenti “fantasma”. In Lussemburgo il dato è ancora più sbilanciato: il 93,9% degli Ide, nello stesso lasso di tempo,era costituito da investimenti della stessa natuta fittizia».
Alla base di queste operazioni c’è la volontà di alcune imprese di trasferire i propri profitti in Paesi a tassazione più agevolata: è il fenomeno del Base erosion and profit shifting (Beps). Negli ultimi tre anni la normativa europea, anche su input del Beps project varato dall’Ocse, ha iniziato a muoversi per contrastare queste situazioni di sleale concorrenza fiscale. Ma molta strada resta ancora da fare.
Il think tank guidato da De Molli propone di mobilitare una maggiore cooperazione internazionale da combinare con l’introduzione di un’aliquota reale minima sulla tassazione degli utili d’impresa comune a livello europeo. Potrebbe rappresentare un elemento di coesione ed efficienza - si legge ancora nel Rapporto - «senza impattare negativamente sulle legittime pratiche di attrazione degli investimenti (anche sfruttando la leva fiscale) messe in atto dai singoli Paesi».
Davide Colombo
redattore esperto
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