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L’empatia è fondamentale, ma non è sinonimo di essere buoni

di Massimo Calì *

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(REUTERS)

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Dobbiamo resistere alla tentazione e di adagiarci nella convinzione di “aver fatto la nostra parte” per il solo motivo di essere stati empatici

24 novembre 2020
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3' di lettura

In uno degli ultimi articoli, girovagando tra i concetti di ascolto, emozioni, silenzio e dintorni, ho (inevitabilmente) tirato in ballo l’empatia, fondamentale nell’ascolto attivo, legata al saper ascoltare non solo quello che viene detto ma anche le emozioni, spesso definita come il “sapersi mettere nei panni di qualcuno”. Vale la pena spendere qualche altro ragionamento, sempre circoscrivendolo al tema dell’ascolto, per rimanere concentrati rispetto a quello che altrimenti sarebbe un argomento infinito, che si scopre in continuazione non solo perché “di moda” nelle agende consulenziali e formative delle aziende.

Certo, il fatto che se ne parli molto è senz’altro un bene, ma porta in dote anche qualche convinzione superficiale quando non erronea. Una delle principali è che l’empatia sia una virtù di per sé, come se essere empatici fosse un sinonimo di essere buoni. Ci aiuta a capirlo l’uscire dalla metafora di “mettersi nei panni dell'altro” per entrare in una definizione più scientifica, che mutuo da Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato scopritore degli ormai celebri (grazie a lui) neuroni specchio, in una recente intervista per La Lettura: “empatia è quando tu e un’altra persona siete nello stesso stato (…) Quando io soffro e vedo te soffrire, si attiva esattamente la stessa parte del cervello. Del tutto diversa dall’elemento cognitivo”.

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Espressa in questo modo appare chiaramente come una sorta di prerequisito per la comprensione dell’altro, in quanto non automaticamente il mio “comune sentire” mi mette nella condizione di aiutarlo (ad esempio, se è di quello che il mio interlocutore ha bisogno). Se rimaniamo all’interno dell’ascolto, appare chiaro che essere empatici non è sufficiente per essere dei buoni ascoltatori.

A pensarci, non è un caso che anche nella metaforica scala che porta alla fiducia, ascolto empatico e vera e propria empatia arrivano prima proprio del gradino legato all’aiuto spassionato, che è spesso lo “step”, per dirla all’inglese, sul quale la nostra operazione di ascolto e creazione di fiducia con il nostro interlocutore trovano un ostacolo. Ostacolo che non è necessariamente sinonimo di cattiveria, non trasparenza o inganno, ma semplicemente l’essere arrivati a un punto in cui il nostro aiuto magari ci “danneggia”, e ci mette nella condizione di dover scegliere tra interessi diversi, il mio e quello del mio interlocutore.

Il momento è uno dei tanti “momenti della verità” relazionali perché, come intuitivamente ci racconta il fatto che la metafora parla di “scala della fiducia”, ogni gradino è più faticoso del precedente. Dove ci porta allora la riflessione? Nelle relazioni di ascolto la costruzione della fiducia è necessaria anche solo perché il nostro interlocutore ci parli di sé e continui a “raccontarsi” e darci la possibilità di avere altro su cui ascoltarlo, in modo da scoprire il più possibile su di lui (e pensate a quanto è fondamentale negli helpdesk, nella vendita e nelle relazioni di tipo consulenziale, nelle relazioni capo/collaboratore fino a questioni che riguardano il coinvolgimento e l’ingaggio).

C’è una breve simulazione che porto spesso in aula con le persone di azienda con cui rifletto sul tema, che lo esemplifica benissimo: insieme ad un “inconsapevole” volontario, metto in scena una persona che ha qualche problema, inizialmente vago e man mano sempre più svelato, sempre che il mio “partner” nella simulazione manifesti i segnali di ascolto, poi ascolto empatico, poi empatia. Anche chi arriva fino a quel gradino, nel momento in cui nella messinscena introduco qualche richiesta di aiuto più impegnativa, persino nella simulazione non è raro che si fermi quando addirittura non si “tiri indietro”, mostrando come quel passaggio non è semplice nemmeno nella finzione scenica necessaria alle simulazioni.

E allora possiamo dirci che l’empatia è fondamentale, ma anche quando riusciamo ad esercitarla, e ne siamo giustamente orgogliosi perché non è stato facile, dobbiamo resistere alla tentazione di adagiarci nella convinzione di aver fatto la nostra parte, per il “solo” fatto di essere stati empatici.

Intanto perché per “fidarsi” di noi, è ragionevole che il nostro interlocutore lo consideri il minimo, lo consideri un aspetto implicito, e quindi non ci permetta di “accumulare un punteggio” particolare ai suoi occhi (e nella sua sfera emotiva). E poi perché non è necessariamente detto che sia sufficiente di per sé, come ci ricorda Rizzolatti: “L’empatia è in fondo la nostra capacità di comprendere qualcun altro. Ma ciò che facciamo con la nostra empatia è determinato da altri fattori, la nostra filosofia, la nostra etica, le nostre vite”.

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