di Marco Maglione *
(REUTERS)
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Tempo fa stavo conversando a cena con un caro amico, che lavora per una grande azienda italiana, quando lui mi dice: «Sai, settimana scorsa ho fatto un assessment. Speriamo sia andato bene…». La nostra conversazione ha poi preso un’altra direzione, ma l’episodio mi ha stimolato alcune riflessioni.
La parola “assessment” genera, nei partecipanti, sensazioni ed emozioni forti, siano esse di timore, di speranze, di dubbi e sospetti. La domanda che mi è sorta (e alla quale non pretendo di dare una risposta definitiva) è: ma che futuro hanno gli assessment? E soprattutto, la loro struttura, che è rimasta sostanzialmente la medesima negli ultimi 50 anni, è ancora adatta? Al contesto organizzativo? Alle caratteristiche dei partecipanti, più quelli futuri che quelli di oggi (i famosi “Millennials” e “iGen”)? Alle sfide che la trasformazione digitale impone?
Prima di rispondere, facciamo un breve passo indietro. Come spesso accade, la pratica degli assessment centre ha origine nel mondo militare: le prime ricerche in merito sono da attribuirsi agli psicologi dell’esercito tedesco più o meno nel 1925. Lo scopo era sviluppare un nuovo processo di selezione per quella che sarebbe poi diventata la Wehrmacht. Si voleva, allora, identificare e preparare militari affidabili, ma anche naturalmente predisposti a ricoprire quelle cariche, così da avere ufficiali più̀ validi rispetto a quelli della Prima Guerra Mondiale, giudicati, a posteriori, inadatti.
Questa metodologia fu ripresa all’inizio degli Anni 40 dal War Office Selection Board (WOSB), la commissione degli psicologi dell’esercito britannico, per arrivare a disporre di criteri legati all’inclinazione a ricoprire posizioni di comando. Fu poi la leggendaria AT&T, nel 1956, a utilizzare per prima tale metodologia in ambito organizzativo e aziendale, favorendone la diffusione prima negli Stati Uniti e quindi nel resto del mondo.
Ma torniamo alla nostra domanda. Qual è la sfida perché gli assessment abbiano ancora un roseo futuro? Diciamo, innanzitutto, che la metodologia degli assessment non è cambiata di molto dalla sua adozione in ambito aziendale. I candidati vengono sottoposti, sia in gruppo che individualmente, a una serie di prove di vario genere e viene chiesto loro di rispondere a batterie di test, siano essi attitudinali, cognitivi o di personalità/profilazione.
La prima sfida quindi riguarda proprio i test/tool normalmente utilizzati. Non tanto per la loro affidabilità, ormai ampiamente accettata, quanto per la modalità di erogazione. Anche se molti sono già da tempo fruibili digitalmente, attraverso un accesso online su diverse piattaforme, si avverte sempre più l’esigenza di un accesso su un’unica piattaforma user e device friendly, che funga da contenitore dei diversi tool, siano essi semplici questionari o simulazioni (in-basket e role-play online, gamification di alcune prove, ecc.).
In questo modo, attraverso l’accesso a un unico ambiente digitale, ci si slega dalla necessità di contemporanea presenza fisica e temporale del partecipante e dell'assessor. Inoltre, il partecipante assume un ruolo veramente centrale nel processo, che deve però essere ingaggiante, stimolante e facile da usare.
Una seconda sfida riguarda gli assessor. A oggi gran parte del processo valutativo è completamente in mano loro. Sulla base di competenze specifiche, esperienze e abilità di osservazione, gli assessor riescono a cogliere le sfumature nei comportamenti dei partecipanti e a formulare un giudizio/valutazione. Ma per quanto tempo sarà ancora così?
I tool basati sull’Intelligenza Artificiale stanno già performando meglio degli umani in molteplici ambiti, e proprio in questo potrebbero risultare meno “bias-affected”. Sono ampiamente noti gli errori cognitivi legati alla nostra percezione della realtà, mentre un sistema «AI-based» ne sarebbe in gran parte immune. Inoltre, le macchine sono molto più efficaci nell’elaborare grandi quantità di dati (ad esempio, risultati da test psicometrici) e a correlarli con altri elementi (reazioni allo stress, “language patterns”, microespressioni, ecc.).
La terza sfida riguarda l’oggetto degli assessment. Quali competenze stiamo misurando e quali dovremmo misurare sempre di più in futuro? L’aumento nella complessità del business e quindi nei ruoli manageriali determina a sua volta un cambiamento nelle competenze che il manager di domani deve possedere e saper utilizzare. Quanto sapranno leggere e generare contesti positivi i manager di domani (ma forse già di oggi…)? Quanta capacità di sense making possiederanno? E quanta capacità di inclusione e governo della diversità?
Cambiare, quindi, diventa sempre più una necessità, volenti o nolenti. Come si dice, «shift happens»...
* Senior Consultant Newton SpA
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