di Vito Lops
Borse in fibrillazione, i consigli degli esperti
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Si sta per chiudere quello che potremmo definire il «primo mese pandemico». I primi sentori di un forte contagio in Europa del Coronavirus risalgono infatti al 19 febbraio. Da allora le notizie non hanno fatto che aggravarsi tanto che l’Oms ha modificato la definizione del contagio: quella che si sperava inizialmente fosse «solo» un’epidemia si è trasformata a conti fatti in una pandemia. E dal 19 febbraio in poi gli investitori ne hanno tratto le conseguenze, vendendo pesantemente gli asset finanziari considerati rischiosi (su tutti le azioni) e acquistando beni rifugio.
Il bilancio del «primo mese pandemico» sui mercati finanziari non ha precedenti nella storia della finanza. Se nel crollo di Wall Street del 1929, quel grande crack finanziario che ancora oggi rappresenta nell’immaginario collettivo la bolla delle bolle, gli indici impiegarono 42 giorni prima di perdere il 20% rispetto ai massimi storici, questa volta ci hanno impiegato appena 16 giorni. A conti fatti l’S&P 500 – l’indice azionario più importante e per certi versi meno attaccabile al mondo – ha perso nell’ultimo mese il 27%, in linea con quanto perso con il Nikkei giapponese.
Le Borse europee viaggiano su proporzioni ancora più pesanti, anche perché l’Europa è in questo momento considerato il nuovo epicentro del contagio, dato che i nuovi numeri targati Covid-19 che arrivano dall’Asia sono incoraggianti e tracciano una brusca inversione della curva di contagi e decessi. Il Ftse Mib si è quasi dimezzato in un mese arrivando a perdere il 44% del proprio valore. Il Dax 30 di Francoforte ha perso il 40%, in linea con gli altri listini continentali rappresentati dall’indice Eurostoxx 50 (-40%).
Tra i ribassi preoccupano inoltre le obbligazioni high yield , in calo di oltre 10 punti percentuali tanto in Europa quanto negli Usa. Un calo dovuto anche alla caduta del petrolio (qualità Wti scesa del 43% sotto i 30 dollari al barile). La nuova battaglia sui prezzi innescata dall’Arabia Saudita potrebbe avere gravi ripercussioni sulla sopravvivenza dello shale oil americano, le cui società costituiscono una parte sostanziale dell’indice dei bond high yield negli Usa. «Il recente, violento allargamento degli spread di credito alimenta i timori di fallimenti societari e di un possibile, imminente, credit crunch», ricorda Marco Piersimoni, strategist di Pictet.
Questi profondi timori – a cui fa da contraltare il superbalzo dell’indice della paura, il Vix, che misura la volatilità dei mercati è che nell’ultimo mese è passato da 14 a 65 punti, il 350% in più – stanno arrivando nonostante le forti misure adottate nel frattempo dalle banche centrali. Ultima in ordine di importanza quella annunciata dalla Federal Reserve domenica 15 marzo tagliando il costo del denaro di 100 punti base a quota 0 e stanziando 700 miliardi di dollari per l’acquisto di titoli. Da inizio anno le banche centrali nel mondo hanno annunciato 45 tagli, la maggior parte dei quali di almeno 50 punti base. Ma per ora queste manovre non hanno placato le paure degli investitori, anzi le hanno alimentate considerato il loro carattere di eccezionalità che è servito a sottolineare, se ancora ce ne fosse stato bisogno, la gravità della situazione.
I due grandi errori commessi nella gestione globale della crisi globale del Coronavirus sono stati proprio il fatto di averla in prima battuta provata ad affrontare a livello locale facendo prevalere gli egoismi nazionali. Solo ora, a distanza di un mese, si inizia a ragionare in termini globali. Il 16 marzo i rappresentanti del G7 si sono riuniti provando a gettare le basi per dettare una linea comune. Allo stesso livello si ravvisano errori (o quantomeno rimarchevoli ritardi) da parte dell’Unione europea con i singoli Paesi (Italia in prima battuta) chiamati a gestire in autonomia una situazione sempre più complessa.
Dato che le banche centrali possono stampare moneta (e non vaccini) e dato che questa moneta (se non indirizzata dalla politica) non può finire direttamente nelle tasche di famiglie e imprese in difficoltà (a tal proposito è stato stimato che in assenza di aiuti diretti molte compagnie aeree rischiano il fallimento entro l’estate), si ha chiara l’idea della necessità di una gestione politica globale di questa crisi.
L’idea è chiara agli investitori che nell’assenza di una strategia globale contro il Covid-19 stanno vendendo pesantemente. La gravità della situazione emerge anche osservando quanto accaduto all’oro. Il metallo giallo è considerato il bene rifugio di ultima istanza, quello che cioè viene comprato quando le cose si mettono male. E così è stato fino al 9 marzo quando la quotazione è schizzata oltre i 1.700 dollari. Dopodiché sono scattate pesanti vendite anche sull’oro che ha chiuso la settimana successiva con un calo superiore all’8% segnando la peggiore settimana degli ultimi 37 anni e tornando sotto quota 1.500. Le vendite sono proseguite anche il 16 marzo portando l’oro ad archiviare questo primo mese pandemico con un calo vicino al 10% (lo stesso accusato dal BTp a 10 anni per intenderci) nonostante il suo standing di bene rifugio. Questo è accaduto perché molti investitori sono stati costretti a monetizzare le posizioni in oro per far fronte alle perdite generate altrove e, soprattutto, a quelle «margin call» che scattano quando un investimento a leva finanziaria subisce forti perdite e quindi arriva la «chiamata» a fine serata a ricoprire la posizione persa.
Un movimento opposto lo si è visto sul dollaro. Di fronte un taglio di 150 punti base dei tassi in pochi giorni (50 punti base il 3 marzo e 100 il 15) il biglietto verde avrebbe dovuto svalutarsi. E così è stato fino al 9 marzo. Dopodiché il dollaro (come evidenziato dal paniere dollar index) ha ripreso a correre perché gli operatori in questo momento hanno bisogno di liquidità. E il dollaro è certamente più liquido dell’oro.
Chi si è certamente sganciato dall’oro in questo primo mese pandemico è il Bitcoin. Il valore della criptovaluta più scambiata e conosciuta al mondo è sceso sotto i 5mila dollari quando appena un mese fa «vedeva» quota 10mila. Un calo che per certi versi ha stupito tutti coloro che finora avevano iniziato a considerare il Bitcoin un bene rifugio, avendo notato in tempi non sospetti come lo sono diventati questi del Coronavirus un’apprezzabile correlazione con l’oro. E invece il test del Coronavirus per ora si è rivelato fallimentare per l’universo delle criptovalute, assimilate in questa fase di panic selling alle azioni.
La domanda da porsi, secondo Simon Peters, analista ed esperto di cripto valute di eTor, è la seguente: «Dove sarà il sentimento degli investitori quando la diffusione del virus inizierà a rallentare e la fiducia nell’economia inizierà a tornare? Dati gli stimoli economici aggiunti al sistema – con altri che probabilmente seguiranno – e con molti investitori che vendono in contanti, il loro approccio potrebbe attestarsi sulla strategia di proteggere i loro risparmi. A questo punto potrebbero quindi adottare comportamenti che possano fornire una copertura contro l’inflazione e un aumento dell’offerta monetaria. In questo quadro, i Bitcoin e le altre criptovalute potrebbero essere gli asset che ne beneficeranno di più».
Non stanno sposando questa visione ottimistica al momento bond e valute rifugio che a conti fatti sono gli unici ad archiviare in rialzo questo mese pandemico da Coronavirus. Al primo posto in classifica ci sono i titoli di Stato Usa i cui prezzi, sulla scadenza a 10 anni, sono saliti di quasi il 10% dal 19 febbraio. Non a caso i rendimenti, che si muovono in direzione opposta ai prezzi, sono scivolati per la prima volta nella storia fino allo 0,4%. In rialzo anche il Bund (1%), l’euro/dollaro (+3%) anche se questo rialzo potrebbe vanificarsi se il dollaro continuerà il movimento di riapprezzamento partito il 9 marzo. Positivi anche yen e franco svizzero, altri due beni rifugio che in questa fase trovano il favore degli investitori, nell’ultimo mese saliti rispettivamente del 5% e 4% sul biglietto verde.
Un po’ di ottimismo arriva dal Multi-Asset team di M&G Investments secondo cui «come nei precedenti casi della crisi finanziaria e dell’Eurozona, si è smesso di valutare il rapporto tra prezzi e fondamentali – gli investitori vogliono semplicemente riavere possesso sui loro risparmi. Gli enormi stimoli in termini di policy in tutto il mondo e i benefici positivi per i consumatori derivanti dai tagli fiscali e dal calo dei tassi sono stati ampiamente ignorati, se non nella misura in cui sostengono la liquidità dei mercati finanziari in questo momento. Eppure restiamo convinti che siano i fondamentali ad essere più importanti nel lungo periodo rispetto alla volatilità dei prezzi. Come visto nel 2008, quando il rapporto tra prezzo e fondamentali si interrompe si è tentati ad abbandonare il focus sui fondamentali e sulle valutazioni. Ma, se il passato può insegnarci qualcosa, è che questa scelta è spesso pericolosa da fare».
Per approfondire:
● Petrolio sotto i 30 dolari al barile
● Il castello di carta della finanza sta cadendo
● Oro sotto pressione: il bene rifugio adesso è fonte di liquidità
Vito Lops
social media editor e redattore finanza
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