di Dario Ceccarelli
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In un periodo come questo, in cui tutto sembra più precario e sfuggente, la morte di Gianni Mura, avvenuta per infarto all’ospedale di Senigallia (Ancona), aggiunge un ulteriore mattoncino di tristezza e malinconia.
Giornalista, scrittore e ottimo cronista
Non c’entra nulla con le cronache di questi giorni, ma scrivendo della sua morte non puoi prescindere da quanto succede attorno. E Gianni Mura, 76 anni, storica firma sportiva e di Repubblica e noto scrittore, prima di tutto era un ottimo cronista. Stava attento ai fatti della vita. Un cronista umile e disciplinato che, prima di scrivere, e poi eventualmente commentare, si documentava con cura e precisione. Non scriveva tanto per farlo. O senza andare alle famose “fonti”, di cui tanti colleghi, anche famosi, si riempiono la bocca predicando bene e razzolando male.
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Tanta “polpa, non “aria fritta”
Non a caso come giornalista era cresciuto alla Gazzetta dello Sport, quella di una volta, di Gino Palumbo e Candido Cannavò, in cui chi seguiva un avvenimento doveva tornare in redazione con il taccuino bello pieno. Tanta “polpa”, non aria fritta. Con le notizie, con quanto era stato detto dopo una corsa o una partita di calcio dagli unici e veri protagonisti, cioè i corridori e i calciatori. Gli sportivi, insomma. Non tutto quel Circo Barnum che c’è adesso con gli agenti, i dirigenti, gli esperti del marketing, gli addetti stampa, le interviste liofilizzate uguali per tutti. No, Mura era ancora un giornalista vecchio stampo, con le scarpe consumate dalle attese, cresciuto alla scuola di Gianni Brera, suo maestro e padre adottivo professionale, del quale, per singolare coincidenza, portava anche il nome di battesimo.
Gianni era (è) un collega da cui non potevi prescindere. Soprattutto se ti inserivi, a poco più di vent’anni, in quel magico mondo dello sport nei primi anni Ottanta, quando le cose anche nel giornalismo stavano cambiando rapidamente. In Italia eravamo al top: “il campionato più bello del mondo “ con Platini, Zico, poi Maradona e tanti altri. Il calcio stava superando anche il ciclismo in fatto di popolarità.
L’amore per il ciclismo, prima di tutto
Una cosa che non piaceva a Mura, cresciuto nel ciclismo di Gimondi e Merckx, di Jacques Anquetil e Bobet. Quello dei Sessanta. Ma Gianni amava moltissimo anche gli altri corridori italiani di quel periodo, quello delle “biglie” da spiaggia con le faccine di Vittorio Adorni, Michele Dancelli, Dino Zandegù, Gianni Motta, Vito Taccone, il “camoscio d’Abruzzo” immortalato da Sergio Zavoli nel Processo alla tappa. Un matto, ma popolarissimo per il cuore che ci metteva.
Mura era cresciuto in quell’ambiente, ma sapeva tutto anche di Fausto Coppi e Gino Bartali, di Fiorenzo Magni e del ciclismo del dopoguerra.
Forse avrebbe voluto esserci già, ma fortunatamente per tutti, c’era stato Gianni Brera e tanti altre penne fini dello sport.
Non potevi prescindere, da Mura, perchè aveva un suo stile. Dal Maestro Brera aveva preso carattere e cifra stilistica. Senza però copiarlo. Tranne in qualche piccola licenza ma lui era il primo ad ammetterlo. Poi dai maestri bisogna sempre copiar qualcosa. Non lo diceva, ma certo lo pensava.
Gianni Mura e la Milano del “nebbiun”
Gianni era nato a Milano nel 1945. In quella Milano del dopoguerra, del “nebbiun” e dei “terun“con lo stadio di San Siro che era il tempio laico del calcio e dello sport. Era il tempo del Milan di Nereo Rocco (il “paron”) e dell’Inter del “mago” Herrera. Due giganti che dividevano la Milano calcistica. Il Derby era davvero il derby e nei bar se ne cominciava a parlare al lunedi per finire il lunedi successivo. C’era lo smog, la schedina, e gli inverni erano inverni cattivi. Faceva freddo e a San Siro bisognava tirarsi su il bavero. Di fianco allo stadio, c’era anche l’ippodromo: Gianni Mura ogni tanto ci dava un occhio e anche un orecchio perché il suo secondo maestro, Mario Fossati, anche lui celebre firma sportiva ( mai ricordato abbastanza) era un grande appassionato di ippica, dopo il ciclismo naturalmente.
Mura era cresciuto in qui posti lì: in quell’ambiente milanese, quello che ha fatto crescere l’altro derby, quello del cabaret, quello di Jannacci, Teocoli e Cochi e Renato e tanti altri. Gianni era anche molto amico di Beppe Viola, un altro precursore che ha lasciato il segno in Rai con le sue telecronache dissacranti e un po’ surreali.
Le cronache sportive mescolate ai cantautori e alla gastronomia
Pur avendo seguito una trentina di Tour de France e innumerevoli avveniment sportivi, Mura amava mescolare i generi intrecciando le sue cronache con gustosi riferimenti gastronomici, letterali e musicali, di cui era un grande appassionato. Amava gli chansonnier francesi, ma anche i cantautori italiani come Endrigo, Fossati, De Gregori. Gli piaceva la canzone popolare, quella di Giovanna Marini e del Canzoniere italiano.
Ecco perchè i suoi pezzi erano molto letti. Perchè non erano solo per specialisti. Se anche non capivi nulla di moduli e di schemi, di cronometro e di volate, con Mura andavi sul sicuro: prima o poi ti avrebbe portato in una deliziosa brasserie di Hautacam, oppure sotto un tiglio della campagna francese a sorseggiare un bel pernod. E dava anche consigli, ricette, indirizzi, play list musicali da viaggio.
Una miniera d’oro per cultori del genere. Amava la buona cucina, quella dai sapori forti. La sua rubrica “mangia e bevi” con la moglie Paola era sempre bene informata e prodiga di consigli. Diciamo che i vegani non erano in cima ai suoi pensieri. Preferiva le carni, gli arrosti, innaffiati da un raffinato barbaresco o anche un più rustico dolcetto. Come il suo maestro: Giuanfucarlo Brera.
L’ammirazione per chi ci metteva la faccia
Più ancora di un suo pezzo di cronaca, era sempre molto attesa la sua rubrica domenicale “Sette giorni di cattivi pensieri”, in cui Gianni scriveva di tutto affibbiando voti a destra e sinistra. Più a destra, a dire il vero, ma nella sua severità da preside era equanime. Non gli andavano i gradassi, i politici che fanno gli “annunci” o che sui social le sparano grosse e poi tirano indietro la mano. I leoni della tastiera, brutta gente, diceva.
Ecco, il suo rapporto con la tecnologia, era di “sana diffidenza”. Stava sul chi va là, insomma. Dava spesso voti bassi a chi lanciava tweet a raffica. Umili o potenti, dirigenti o tifosi, non importa. Gli stava a cuore chi si esponeva, atleti come Mohamed Ali, o come Tommie Smith. «Gli atleti pagano sempre le proprie ideologie politiche» diceva con ammirazione.
Apprezzava ancora di più gli atleti meno famosi che non sono conformisti, non si fanno tatuaggi e nelle interviste non dicono «vediamo cosa dice il Mister» oppure «quello che mi interessa è solo il bene della squadra». Il calcio è pieno di queste frasi fatte, soprattutto negli ultimi anni. E lui, da buon preside, rifilava voti bassi come frustate, due e tre come se piovesse.
Una persona perbene, un po’ spigolosa
È stato un grande mangiatore e un grande fumatore. Non si è tirato indietro, diciamolo, come il suo maestro. «Un giorno passai le sigarette perfino a Eddy Merckx» gli piaceva raccontare per scandalizzare gli anti fumatori che considerava altrettanto intolleranti dei fumatori.
Nessuno è perfetto e anche Gianni Mura, fortunatamente, non lo era. Coi giovani colleghi, era indulgente. Sapeva che nessuno nasce imparato. Soprattutto nel giornalismo sportivo dove è facile , per una notizia in più, o un titolo ad effetto, prendere uno sfondone. Ma gli arroganti, no, quelli non li sopportava.
Era un bravo giornalista, e anche una persona perbene. Un po’ spigoloso, qualche volta perfino scorbutico per nascondere una strana timidezza che riaffiorava qua e là. Come tutti quelli che hanno carattere, aveva un brutto carattere, ma era onesto e sincero nei giudizi. Magari sbagliando, ma facendo sempre di testa sua. Come avrebbe scritto Gianni Brera, gli sia lieve la terra . E anche il nostro ricordo di vecchi ragazzi che hanno fatto un pezzo di strada con lui.
Dario Ceccarelli
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