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La diffusione del coronavirus ha causato uno stato di emergenza che ha coinvolto sia la sfera individuale delle persone che quella collettiva: città deserte, famiglie chiuse in casa, chiese sbarrate, sirene di ambulanze, trasmissioni televisive focalizzate su ospedali e contagi. In pochi giorni siamo passati dalla normalità di una vita che scorreva con i suoi ritmi e le sue liturgie a una situazione precaria e allucinata, dai contorni assai simili a quelli di un film apocalittico.
Le certezze di vivere in un continente tecnologizzato e inattaccabile si sono frantumate dinanzi alle cifre dei ricoveri e alle scene di morte. In questo periodo dai contorni evanescenti, sospeso nell'incertezza e nella paura, mentre una nazione ha dovuto reinventarsi una maniera totalmente inedita di vivere, Giuseppe Lupo (candidato al Premio Strega 2020) ha registrato giorno dopo giorno sensazioni, pensieri, ricordi, ora chiedendo aiuto alle parole contenute nei libri, ora affidandosi alle risorse dell'immaginazione. Un percorso breve ma intenso, di emozioni e progetti che dal disincanto conducono alla speranza. Un percorso che diventa un libro: “I giorni dell’emergenza. Diario di un tempo sospeso”.
In edicola da sabato 18 aprile per un mese a 9,90 euro.
Ecco uno stralcio dal libro: «L'epidemia di coronavirus non ha soltanto risuscitato le paure ancestrali e magari favorito l'insorgere di pulsioni istintive, che senza volerlo ci hanno svelato tratti comuni con il popolo fiorentino narrato da Boccaccio o con la plebaglia milanese della peste manzoniana. La paura ci ha resi partecipi di una verità che sapevamo ma che preferivamo tacere a noi stessi, per quel pudore che ci vieta di manifestare chi veramente siamo, pur abitando in un'epoca ipertecnologica. La nostra fragilità, figlia e fautrice di quella che Zygmunt Bauman definiva “età dell'incertezza”, a quanto pare prevale anche nella sfida contro l'ottimismo della scienza e i primi venti anni del nuo¬vo millennio sono stati accompagnati da continui richiami di morte globale: la Sars, l'aviaria, la mucca pazza, la peste suina……….
Qui sta il vero paradosso: siamo circondati dal progresso, eppure reagiamo in maniera pressoché identica agli uomini che vivevano nella Firenze del Trecento o nella Milano del Seicento. La letteratura che racconta le epidemie, da Boccaccio a Manzoni, da Camus a Márquez, svela le debolezze dei caratteri umani dinanzi all'apocalisse. Fin qui non ci sarebbe alcuna aggiunta da fare. Invece c'è una novità. Per l'intero secolo scorso abbiamo auspicato e cercato la dimensione orizzontale, diminuito ogni distanza tra base e vertice, ricucito l'antico strappo con le élites culturali (era questo il sostantivo con cui negli anni Cinquanta-Sessanta si definivano gli intellettuali), abbattuto la tirannia dei maestri e di tutto ciò che potesse richiamare alla memoria quella fastidiosa pedagogia verticistica e autoritaria.
Il Novecento è stato il grande secolo dove la modernità ha assunto il significato positivo della condivisione e diffusione della conoscenza. Ma in ciò adesso si manifesta una vistosa anomalia. Le ideologie sono sparite da oltre trent'anni, la rete, i social, le community dell'epoca globalizzata hanno spazzato qualsiasi filtro e controllo, favorendo l'uso indiscri¬minato dell'uno contro uno, a prescindere se dietro ciascu¬na opinione ci siano o no le necessarie competenze. Sembrerebbe il valore aggiunto di questa tanto ricercata lettura orizzontale del presente, in realtà si tratta di una falsa conquista democratica, un'idea errata di cui stiamo constatando l'inefficacia. Proprio perché travolti dal disordine di notizie e da una sensazione di impotenza organizzativa, che ha inevi¬tabili riflessi sul piano istituzionale, avvertiamo il fallimento dell'approccio orizzontale, cioè la sconfitta di quel lungo processo ideologico che il Novecento aveva portato avanti accondiscendendo alle istanze del pensiero debole. Il bisogno di verticalità non traduce formule politiche, come capziosamente si potrebbe intendere. Non apre la strada a quella mai sopita tentazione di ricorrere all'“uomo forte”, al Leviatano di Hobbes, in nome del diritto basilare di vivere. Ma non è questa la verticalità di cui si avverte il vuoto. ………»
L'autore
Giuseppe Lupo insegna letteratura italiana contemporanea all'Università Cattolica di Milano. Ha pubblicato per Marsilio diversi romanzi, fra cui L'americano di Celenne (2000; Premio Giuseppe Berto, Premio Mondello), L'ultima sposa di Palmira (2011; Premio Selezione Campiello, Premio Vittorini), Gli anni del nostro incanto (2017; Premio Viareggio Rèpaci) e Breve storia del mio silenzio (2019, candidato al Premio Strega 2020). Come studioso di cultura industriale ha curato l'antologia Fabbrica di carta. I libri che raccontano l'Italia industriale (Laterza 2013; con G. Bigatti) e ha scritto il saggio La letteratura al tempo di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità 2016). Collabora alle pagine culturali del Sole 24 Ore, per le cui edizioni ha pubblicato Le fabbriche che costruirono l'Italia.
Uscita: sabato 18 aprile 2020 in edicola per un mese al prezzo di 9,90 euro
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