di Monica D'Ascenzo
4' di lettura
Sette posti su dieci persi nel 2020 erano di donne in Italia, dove già lavora meno di una donna su due. Le donne, poi, in media guadagnano il 15% in meno dei loro colleghi. Sono anche quelle su cui ricade il 76,2% dei lavori di cura: 5,05 ore al giorno contro un’ora e 48 degli uomini. E forse anche per questo le donne faticano a far carriera: fra le manager sono il 25% e solo il 5% fra le Ceo. Certo nei consigli di amministrazione sono oltre il 36%, fra i livelli più alti in Europa, ma solo grazie al «farisaico rispetto delle quote rosa». Se ci spostiamo al mondo accademico, però, le percentuali tornano a scendere: solo il 23% dei professori ordinari è donna e gli atenei italiani contano solo 7 rettrici su 84. In politica in 75 anni le donne al governo sono state appena il 6,5% e il nuovo esecutivo non è stato il punto di svolta che ci si attendeva, con 8 ministre su 23 (35%). Nello sport le atlete italiane conquistano medaglie ma non lo status da professioniste, che è stato sì approvato pochi giorni fa ma di fatto solo per le calciatrici. Andando al welfare, in Italia l’offerta di posti in asili nido è ancora inferiore al 25% dei potenziali utenti, ben sotto la media europea.
Questi sono i dati che fotografano il nostro Paese e la lista potrebbe continuare. Si tratta di numeri che rimbalzano da un report all’altro, da un convegno a una conferenza. Numeri noti, studiati e analizzati nel dettaglio, cercando motivazioni e imbastendo soluzioni. Di fatto, però, restano (quasi) immutabili anno dopo anno in un balletto che nelle classifiche internazionali ci fa scalare qualche posizione, per poi perderne il doppio l’anno successivo.
Che poi questi numeri siano un problema non solo per una questione di principio o di pari opportunità, ma anche e soprattutto di crescita del Paese è stato dimostrato da studi di ogni genere: da quelli di Banca d’Italia che già nel 2013 indicavano come se il tasso di occupazione femminile fosse aumentato dall’allora 46% al 60%, il Pil italiano sarebbe cresciuto del 7%; a quelli dell’Università Bocconi e Consob che avevano sottolineato una correlazione fra un numero congruo di donne nei board e il miglioramento di indicatori di redditività delle aziende.
L’8 marzo è l’occasione per fare il punto, ma i dati di quest’anno non potranno che raccontarci una situazione più pesante e un rallentamento, se non proprio uno stop, ai trend di miglioramento, a causa della pandemia. La politica e il governo ne sono consapevoli, come ha dimostrato il discorso del premier Draghi alle Camere: «Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro».
La parità di genere è indicata con chiarezza fra le priorità e gli ambiti di intervento sono stati individuati. È arrivato il tempo di azioni concrete e incisive, che non possono essere solo soluzioni tampone.
L’Italia ha la necessità di un piano strutturato, coerente e complessivo che affronti la questione di genere in modo integrato partendo dal ridisegno dei progetti per la parità di genere previsti nel Recovery Fund. È fondamentale un sostegno all’occupazione femminile che non sia la semplice riedizione di misure di agevolazione e sgravi fiscali, che finora non hanno dimostrato di funzionare efficacemente. Come allo stesso tempo l’indispensabile rafforzamento delle infrastrutture sociali, a cominciare dagli asili nido, non può essere considerato da solo risolutivo.
Il Paese merita un piano complessivo, all’altezza di quello approvato in altri Paesi europei, che sia il frutto della collaborazione attiva di diversi ministeri: dal Lavoro alla Famiglia, dall’Istruzione alla Sanità, dalla Pubblica amministrazione alla Disabilità. Un piano che non può prescindere da una variabile importante: se il 57% delle risorse del Recovery Fund saranno dedicate all’innovazione tecnologica e alla transizione digitale nonché alla transizione ecologica, non si potrà ignorare che proprio in questi due ambiti l’occupazione femminile presenta tassi bassissimi. Le donne, quindi, rischiano di essere tagliate fuori dai maggiori investimenti che arriveranno nel Paese. Per questo motivo, in particolare in questi due ambiti, parte delle risorse dovrebbero essere impiegate per colmare il divario di genere e aprire nuove opportunità anche alle donne con investimenti che partano dai primi livelli dell’istruzione scolastica. In caso contrario le transizioni saranno monche e acuiranno le disuguaglianze anziché diminuirle.
In un Paese, che ha chiuso il 2020 con un calo del Pil dell’8,9%, non ci si può più permettere di tenere fuori dal mondo del lavoro metà dei talenti. Secondo alcune stime, per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Posti che con ogni probabilità andrebbero a occupare altre donne. Un circolo virtuoso che aiuterebbe a scongiurare anche quella crisi sociale che molti temono, perché le famiglie con un doppio stipendio sono meno a rischio di povertà.
Non chiamiamola, quindi, festa della donne. C’è poco da festeggiare. Torniamo a chiamarla Giornata internazionale per i diritti della donna.
Monica D’Ascenzo
redattrice
P.I. 00777910159 Dati societari
© Copyright Il Sole 24 Ore Tutti i diritti riservati
Per la tua pubblicità sul sito: 24 Ore System
Informativa sui cookie Privacy policy