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La ripresa va declinata al femminile

di Cristina Sivieri Tagliabue

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(Halfpoint - stock.adobe.com)

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23 dicembre 2020
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3' di lettura

La fotografia è disarmante. Solo il 18% dei dirigenti è donna, come lo è solo il 22% degli imprenditori. Quattro volte su cinque, insomma, al vertice c’è un uomo. E l’80% delle donne che gioca, non tocca palla. Questo in media, visto che in alcuni campi, come in quello sportivo, tutti i presidenti delle federazioni sono uomini, e solo ora si è affacciata una donna, Antonella Belluti, che sfiderà il presidente del Coni Giovanni Malagò.

Secondo una recente indagine di Federmanager, occorreranno ancora 60 anni affinché si arrivi a una sostanziale parità nei ruoli apicali. Nel frattempo è successo che l’occupazione femminile in Italia, a causa della cosiddetta she-cession, sia scesa sotto il 50 per cento. E che in totale nel Sud sia occupata solo una donna su cinque. Insomma l’80% delle donne, nel sud Italia, non lavora.

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E il 2020 è stato l’anno in cui le donne hanno perso di più dal dopoguerra, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Secondo una ricerca di Oxfam Canada, anche il terzo settore dei servizi per le donne è stato praticamente dimezzato dalla pandemia. Hanno perso le donne e hanno perso i bambini perché nonostante avessero le mamme appresso a loro, in tanti non sono stati neppure concepiti. Rafforzando così la malsana e preoccupante relazione di uno a cinque tra popolazione anziana e nuovi nati denunciata dall’Istat.

L’80% degli anziani non ha un nipotino a cui raccontare le fiabe. Un Paese siffatto, maschio, e anziano, dedica 17,1 miliardi dei 209 del Recovery alla parità di genere. E peraltro, le donne – ultime solo dopo la povera sanità italiana senza Mes – sembrerebbero beneficiare di contributi che in realtà sono meno di quanto scritto, perché la cifra del 17 abbraccia altro. Tre miliardi sono destinati alle politiche del lavoro per i giovani; 5,9 alla vulnerabilità sociale, allo sport e al terzo settore, e 3,8 agli interventi speciali per la coesione territoriale. Rimangono solo 4,2 miliardi alla vera e propria parità di genere. Altro che pari e patta. Altro che Giusto Mezzo.

La metà della popolazione italiana che in quest’anno ha sofferto di più, perso il lavoro, fatto sacrifici indicibili e che ormai non ha quasi più speranza nel futuro è considerata – economicamente – alla stregua delle comunità montane.

Il Giusto Mezzo ha chiesto, appunto, la metà del Recovery. La metà per poter contare davvero come la metà. Per creare delle infrastrutture sociali vere, tangibili, e invece quanti asili nido potremmo costruire e organizzare con una parte di 4,2 miliardi? Certo anche parte degli altri fondi del Recovery insisteranno su scelte che ci coinvolgono, ma come, e quanto? Com’è possibile che ancora non si parli dei contenuti delle scelte che stiamo facendo?

E non c’è solo il lavoro dipendente, ormai allo stremo tra smart working e connessione perpetua. Il Giusto Mezzo guarda anche alle partite Iva, e alla possibilità concreta di fare impresa. Al dover fare di se stesse, impresa. E pur apprezzando gli sforzi attuali, quelli che arriveranno “prima” del Recovery – gli articoli 17 e 18 della legge di bilancio del sottosegretario Gian Paolo Manzella destinano 40 milioni di euro per i prossimi anni alle startup femminili – ci si domanda: come potremmo voltare pagina, con questi fondi? Che sono ingenti ma ancora pochi per reinventare – o inventare da zero – un servizio o un mestiere che prima non esisteva. Per tante persone.

Dobbiamo investire in settori ad alta occupazione femminile per fermare una disoccupazione già imbarazzante, che sarà drammatica appena le aziende potranno davvero iniziare a licenziare. E se le aziende licenzieranno, le donne dovranno trovare la forza di intraprendere. Aumenteranno le partite Iva, e i famosi “piani B” a cui ha pensato Chiara Gribaudo con la Iscro, la prima Cig per le partite Iva nella storia italiana. Ma è necessario pensare anche alla costruzione di una nuova identità per chi è stata abituata alla precarietà come stile di vita. Il sogno che ognuna di noi ha nella testa, magari nascosto nel fondo di cassetto, deve essere realizzabile. E allora sarà importante accompagnare le non imprenditrici a immaginarsi per la prima volta imprenditrici di se stesse, autosufficienti, professionalizzate, e soprattutto fiduciose di potercela fare. Come? Con un percorso fatto di meccanismi semplici, come accadeva vent’anni fa in Gran Bretagna. Dei luoghi piccoli con delle persone gentili che spieghino come aprire un’impresa. Delle istruzioni facili per rispondere ai bandi senza doversi rivolgere a dei consulenti succhiasangue.

La filosofia delle startup non deve essere più solo appannaggio maschile, ma per cambiare rotta bisogna sostenere anche chi non desidera fare i miliardi, ma magari creerà servizi utili alla comunità utilizzando “microcredito”. Se possibile, dovrebbe anche essere divertente. Facciamolo diventare un gioco da ragazze.

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