di Chiara Dal Canto
Un interno di Giuliano Andrea dell'Uva, a Napoli.
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Il termine tendenza, se riferito all'ambito della moda e del lifestyle, evoca la breve durata e una certa aleatorietà. Il desiderio di identificare il nuovo e il non visto, il bisogno di afferrare in anticipo le espressioni che il futuro ci riserva hanno, qualche volta, troppa fretta e un carattere d'urgenza che non si addice agli ambiti nei quali è il tempo, con i suoi tempi, a far emergere i linguaggi innovativi. Così accade nel mondo del design e della progettazione di interni, dove le realizzazioni non sono immediate, ma richiedono un respiro più ampio, e l'elaborazione di nuove proposte si manifesta con modalità più meditate. La ricerca segue percorsi più dilatati, e così la sperimentazione.
La fotografia che proponiamo, attraverso il lavoro di tre architetti d'interni e di tre designer, tutti attivi sulla scena italiana e con progetti che hanno fama internazionale, restituisce una realtà creativa che condivide caratteri comuni, anche se ciascun autore si distingue per la sua forte personalità. L'uso espressivo dei materiali, l'orizzonte culturale spesso comune e la ricerca di un linguaggio decisamente individuale accomunano molti autori che si muovono nel campo ibrido della progettazione: dagli spazi al disegno industriale, dall'oggetto in edizione limitata a quello che è unico e dedicato a un solo utente.
Il side table Ruins Volubilis, di Roberto Sironi, in fusione di bronzo e marmo artificiale di Rima(6 + 2 pa, 12.500 €).
Stratificazioni è la parola chiave che introduce ai progetti di Hannes Peer. Nei suoi interni, il presente non azzera il passato, ma vi si sovrappone, lavorando sulle tracce. Bolzanese d'origine, laureato al Politecnico di Milano con esperienze negli studi di Rem Koolhaas e di Zvi Hecker, ha recentemente aperto il suo spazio a Milano con una formula che lo avvicina alla galleria in cui si incrociano architettura, design e collezionismo. Sono elementi che diventano eloquenti nel suo lavoro, dove al taglio architettonico si aggiunge una particolare sensibilità per i materiali utilizzati, spesso in contrasto, lucido opaco, ruvido morbido, e per gli arredi, quelli da lui creati o attraverso i quali rende omaggio ai grandi designer del Novecento.
I suoi interni esprimono una notevole expertise cromatica: scelte coraggiose, come una grande parete blu cobalto in cotto smaltato, accanto a mobili che disegna con chiari rifermenti all'arte contemporanea. «I nuovi interventi partono, prima di tutto, dallo stato di fatto, da ciò che già esiste perché è sul contesto che si costruisce», spiega. La sua abitazione è una sorta di casa “manifesto” che mette in scena la sua sensibilità nel sentire i luoghi. L'appartamento aveva avuto un precedente inquilino illustre, il pittore Emilio Tadini, ma le tracce dei suoi colori primari erano in stato di abbandono, così come le porzioni di pavimento create dall'artista Bobo Piccoli, noto per la pavimentazione del Palazzo delle Stelline.
Questi elementi sono stati i punti di partenza per un nuovo strato che ha cancellato molto del passato e riscritto un testo che parla il linguaggio della contemporaneità: bassorilievi in calcestruzzo dell'artista Ursula Huber, pareti di cemento dal sapore brutalista che contrastano con il gres lucido, imbotti di marmo che citano le case nobili romane, mentre il soffitto in gesso a losanghe è un omaggio a Piero Portaluppi. Gli interni di Hannes Peer mostrano un eclettismo ben padroneggiato che gli è valso l'invito a partecipare, unico italiano presente, alla manifestazione francese AD Intérieurs 2019, ottenendo lì una consacrazione ufficiale.
Anche per Giuliano Andrea dell'Uva la preesistenza è il punto di partenza di un nuovo progetto. Trasformare senza cancellare è una sintesi efficace della filosofia di questo professionista napoletano per il quale l'architettura ha origini in famiglia. «Ho iniziato a 17 anni, quando i miei genitori mi affidarono la ristrutturazione e il restauro di una casa, disegnata, nel 1924, dal mio bisnonno architetto. Mi ero appena iscritto all'università e avevo conquistato la mia prima copertina di una rivista di arredamento. Ho avuto la fortuna di crescere in case in cui c'è sempre stata una grande contaminazione tra mobili ed oggetti di famiglia e arredi contemporanei di Gio Ponti ed Albini», racconta.
A soli vent'anni ha aperto il suo studio. Precoce, curioso, capace di stabilire rapporti empatici con la sua clientela, dell'Uva ha avuto la chance di lavorare in un territorio dove le testimonianze della storia hanno caratteri unici. Un convento del Seicento ad Anacapri, un palazzo nobiliare i cui gradini hanno l'impronta del tempo, una terrazza che domina la città, un appartamento affacciato sul leggendario Palazzo Donn'Anna, a Posillipo sono gli scenari nei quali si è trovato a intervenire e nei quali la sua doppia personalità di cultore della storia e di amante della contemporaneità ha trovato un punto di equilibrio. Spesso utilizza i tessuti che lo stilista caprese Livio De Simone disegnò negli anni Settanta. Dell'Uva è oggi anche art director di questa piccola e preziosa realtà, che continua a produrre tessili dipinti a mano.
Consolle Butterfly, in legno con finitura in resina, diHannes Peer per Sem (5.600 euro).
A una visione degli interni che privilegia gli spazi aperti e dà così eleganza anche a quelli di servizio, si affianca la ricerca di riferimenti storici a cui attinge senza esserne plagiato. A questo va aggiunto il dialogo con l'arte contemporanea, che dell'Uva spesso utilizza come elemento indispensabile al progetto. «Amo le porcellane della scuola di Capodimonte, le ceramiche di Giustiniani ammirate dai viaggiatori del Grand Tour e amo molti artisti d'oggi, con cui la mia città ha saputo dialogare. Nascere a Napoli è un privilegio. Nel lavoro bisogna saper selezionare, serve competenza e sicurezza, ma far rivivere qualcosa è la mia più grande soddisfazione», spiega.
Non sempre tra architettura e decorazione sono intercorsi buoni rapporti; con ragionevoli motivi la prima ha guardato la seconda con sospetto, non ritenendola una componente sostanziale del progetto. Non è un caso che le generazioni contemporanee considerino Gio Ponti un maestro imprescindibile, perché nelle sue opere le due discipline dialogano efficacemente l'una organica all'altra e propongono una visione integrale, che va dalla concezione degli spazi all'uso dei materiali, agli interventi di numerosi artisti.
Lo studio torinese composto da Andrea Marcante e Adelaide Testa si è imposto all'attenzione grazie a una serie di interni dal linguaggio assai personale, che ricerca il lusso ma non l'opulenza, colto ma con accenti ironici, ricco di citazioni storiche ma non museale, dove architettura e decorazione si integrano reciprocamente creando un originale paesaggio domestico. Il loro è un gusto fresco e anche divertito che mette in luce una competenza cromatica molto precisa, un uso dei rivestimenti sia floreali sia geometrici, marmi ricercati e altrettante essenze, ottone e laminati, arredi di produzione o disegnati appositamente. Il vocabolario che li ha resi noti, e per questo anche imitati, si è espresso in una serie di invenzioni, declinate diversamente a seconda del luogo.
«Non è più tempo di blank canvas», affermano Marcante Testa, che hanno dato vita allo studio nel 2004. «Quello da cui partiamo è la memoria storica del luogo, ma gli elementi che concorrono a definire un progetto sono tanti: dallo studio dello spazio alla scala architettonica, fino agli arredi e agli oggetti. Ogni scelta non risponde a un approccio stilistico, ma è parte di un insieme». In un appartamento milanese hanno lavorato sulle superfici di marmo che, in un elegante Cipollino Tirreno venato d'azzurro, riveste il pavimento del salotto e sale intorno alle pareti che incorniciano una porta finestra. Lo stesso pavimento incontra, nella zona pranzo, il marmo Verde Alpi che risale le pareti per diventare mensola. Nel medesimo appartamento, la temperatura volutamente fredda della zona living si riscalda nel verde intenso della cucina, dove un invitante angolo breakfast gioca sull'accostamento di blu e legno scuro, con la geometria colorata delle piastrelle del pavimento e il motivo floreale della carta da parati sul soffitto. Si percepisce un senso di libertà non attribuibile a un genere preciso, ma a una disinvoltura studiata, frutto di numerose ricerche.
Ci sono aree di sovrapposizione tra architettura degli interni e design, e insieme guardano ad altre discipline, siano l'arte o la fotografia o, come nel caso del designer Roberto Sironi, l'archeologia. Il suo è un lavoro ricco di riferimenti culturali e di scavo nella storia. Ruins è la serie che l'ha fatto conoscere, cinque pezzi pensati con una funzione precisa, allusivi di frammenti della classicità nei quali i materiali, fusione di bronzo e marmo artificiale di Rima, sintetizzano un elaborato processo. Nuovi arredi si aggiungono ora a questo primo episodio e Sironi, rappresentato dalla prestigiosa Carwan Gallery, la cui clientela annovera collezionisti internazionali, soprattutto americani, avrebbe dovuto essere protagonista di una personale al Miart 2020, posposta per le ragioni che conosciamo.
Un progetto in residence, grazie a BRH Studio, l'ha portato a Torino, dove il suo occhio di designer archeologo è stato attratto tanto dalle rovine industriali del comparto siderurgico, quanto dai marmi che oggi non esistono più, per esaurimento delle cave, ma che furono utilizzati dai grandi architetti settecenteschi del capoluogo piemontese. Sulla linea tracciata dal programma di residenza, sono nati quattro nuovi pezzi, tra cui un tavolo che traduce in bronzo la texture di una lamiera corrosa dalla ruggine e una seduta in marmo artificiale di Rima, uno stucco lavorato in pasta, che nell'Ottocento ebbe una grande fortuna fin nella Russia degli Zar, mentre oggi è rimasto un solo artigiano capace di produrlo in Valsesia, con un procedimento che richiede fino a otto pietre per levigarlo.
La complessità e la manipolazione quasi alchemica dei materiali sono all'origine delle creazioni di Roberto Sironi, i cui lavori hanno una forte componente artistica e narrativa, parlano di trasformazioni della materia e di ricordi. Afferma: «Non frequento Instagram né altri social network per non esserne inquinato. Il mio è un lavoro soprattutto introspettivo. Guardo più dentro che fuori».
Anche Valentina Cameranesi Sgroi ha studiato design, quello industriale in particolare, ma la sua pratica professionale ha preso l'indirizzo dell'art direction nei campi dell'arredamento e della moda, mentre la creazione di oggetti, soprattutto di vasi che le hanno portato una certa notorietà, nasce, quasi occasionale, dall'aver vissuto in Veneto non lontano da Nove, dove la produzione ceramica si sposa con l'abilità artigianale. Romana di origine, milanese d'adozione, ha scelto di dedicarsi agli oggetti decorativi «perché mi facevano sentire più libera. Nel mio percorso scolastico avevo l'ossessione della sedia, dal momento che venivamo stimolati a progettarne di nuove. Ho scelto il vaso perché è più lieve. La mia ricerca è di natura espressiva e non ha necessità di essere guidata da un eccesso di tecnica, né ho il feticismo di piegare il materiale al mio volere». Smaltata, tinta o striata con un effetto vicino al marmo, la sua ceramica ha forme generose e morbide, lei stessa ne studia la mise en scène sia fotografica sia espositiva, come è accaduto al Design Parade di Toulon, dove ha inserito i suoi vasi in una scenografia dal titolo Féminin, che alludeva a un salone di parrucchiere.
L'ecletticità e l'apertura che caratterizzano il suo processo creativo l'hanno portata a collaborare con artisti appartenenti ad ambiti diversi: due mostre, a Roma e a Parigi, con la designer di gioielli Joanne Burke (nelle pagine di apertura, a destra, Beetlejuice with bronze urchin ribbon, uno dei loro pezzi collaborativi) e alcuni progetti, sia in passato sia in corso, con la fotografa Camille Vivier. Simultanea, la sua serie di vasi in marmo, e promette che saranno gli ultimi, è stata realizzata con uno sguardo al Futurismo e al tema del movimento bloccato in una materia statica come la pietra, mentre Etere, la recente collezione di oggetti in vetro borosilicato, si muove in una direzione opposta. Il solo design sembra starle stretto, mentre il suo orizzonte la porta verso fascinazioni visive dove l'oggetto trova il suo completamento nell'immagine che lo rappresenta e lo sa raccontare.
Simbologia e narrazione sono i termini che possono illuminare il lavoro di Sara Ricciardi, designer dalla forte personalità, il cui percorso ha caratteri originali: insegnamento, performance, disegno di oggetti raffinati che non sono destinati ai grandi numeri, installazioni che sconfinano nell'arte. «Dalla pedagogia all'art direction per il gruppo Starhotels, dal social design alle espressioni del lusso: sono una ricercatrice di storie, attraverso le quali far riemergere l'origine simbolica dei materiali, dei gesti e dei rituali». Per i suoi recenti trent'anni, si è regalata una serie di sette pezzi che nascono dalle conchiglie, dopo averne raccolte per ben due anni. Pecten, nome della collezione e denominazione scientifica di una famiglia di molluschi, ha origine dalla scoperta di un quadro di Julius Hübner a Berlino. Di qui la riflessione sui significati e sulle applicazioni di questo elemento naturale: dall'acquasantiera che ne riprende la forma e ci purifica all'allegoria della nascita della Venere di Botticelli che dalla conchiglia emerge. Sette pezzi che Ricciardi non ha ceduto, nonostante le richieste, e hanno generato il desiderio di possedere qualcosa di unico che l'autrice è pronta a disegnare ad personam non prima di aver chiesto: “Qual è il tuo simbolo di rinascita?”.
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