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Gabriele Gravina: «Il calcio è un volano, lo Stato incassa 16 euro per ogni euro di aiuti versato»

di Marco Bellinazzo

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(Ansa)

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Il presidente Figc: versati allo Stato oltre 12 miliardi negli ultimi 10anni. «Per ricordare Paolo Rossi possibile anche il premio al capocannoniere di A».

13 dicembre 2020
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4' di lettura

«Per ogni euro assegnato al calcio, il calcio ne restituisce 16 alle casse pubbliche. Nell’ultimo decennio abbiamo ricevuto contributi dal Coni per circa 800 milioni e versato allo Stato oltre 12 miliardi. Non chiediamo indennizzi a fondo perduto, ma pari dignità con gli altri settori industriali». È un Gabriele Gravina, calmo ma determinato, quello che si appresta a chiedere la conferma al vertice della Figc nelle elezioni del prossimo 22 febbraio. Dalla scorsa primavera, con la prima ondata di Covid-19, Gravina sta guidando con fermezza il movimento calcistico italiano in quella che è probabilmente la fase più dura dal Dopoguerra. E il pensiero, nel giorno in cui se ne celebra il funerale a Vicenza non può che andare a uno dei simboli più alti, Paolo Rossi, al quale potrebbe essere dedicato il titolo di capocannoniere della Serie A come proposto da Radio24 («un’idea che approvo - dice Gravina - e stiamo studiando anche altre iniziative che possano sempre ricordarcene il valore»).

Una crisi di sistema in cui il calcio italiano, Presidente Gravina, però è entrato portandosi dietro squilibri finanziari e ritardi strutturali.
È vero. Il nostro calcio sta subendo le conseguenze economiche della pandemia in modo grave anche perché si porta dietro criticità irrisolte. Oggi bisogna essere ancora più risoluti nel trasformare le idee in comportamenti virtuosi, lavorando per aumentare i ricavi, abbassare i costi e distribuire più equamente le risorse. Basta ragionare sulla difensiva. Dobbiamo rivendicare la nostra forza: i 3 miliardi di impatto socio-economico come rilevato attraverso il “Social return on investment model”, i 5 miliardi del “Pil” calcistico prodotto da Figc, Leghe e club professionistici e dilettantistici, una contribuzione fiscale e previdenziale da 1,3 miliardi all’anno e più di un milione di tesserati.

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A proposito di numeri e costi, lei ha sollevato a livello europeo la necessità di un salary cap per calmierare gli ingaggi.
Nel passaggio drammatico che stiamo vivendo non si può pensare che una componente come quella dei calciatori che assorbe il 70/80% dei fatturati possa essere indenne. I sacrifici sono necessari da parte di tutti e quelli, apprezzati dei calciatori, sono purtroppo insufficienti. Dopo la mia richiesta Fifa e Uefa stanno studiando come intervenire. I club hanno in corso obbligazioni che non possono disattendere ma vanno accompagnati in un percorso virtuoso e duraturo, che tuteli i calciatori che guadagnano cifre basse.

In queste settimane, la crisi che sta attraversando il calcio italiano è risultata ancora più evidente. I club, all’altezza del 30 giugno 2020, riportano perdite per oltre 700 milioni. In parte, ma solo in parte, ascrivibili all’ultimo quadrimestre.
Gli effetti più pesanti dell'emergenza sanitaria si stanno abbattendo in questa stagione, con i proventi dei botteghini scomparsi e con quelli legati alle sponsorizzazioni in calo a causa del venir meno delle attività di hospitality. I club avranno minori entrate per 600 milioni, senza contare i maggiori costi sanitari. Ciò mette a dura prova la tenuta di tutte le società dalla A ai Dilettanti. Abbiamo presentato al Governo un pacchetto di richieste che crediamo ragionevoli: posticipare i pagamenti di tasse e contributi con una rateizzazione di 24 mesi a partire da maggio 2021; facilitazioni nell’accesso ai finanziamenti; sospensione fino al giugno 2022 del divieto di partnership commerciali legate al betting sancite dal Decreto Dignità. Un divieto che già in tempi normali aveva favorito i club esteri. Ma poi bisogna andare oltre l’emergenza.

In che modo?
Tutte le componenti devono lavorare per far crescere il sistema. In questo senso, ad esempio, l’operazione che sta portando avanti la Lega di Serie A sui diritti tv con la creazione di una media company in partnership con fondi di investimento, va nella direzione giusta. Valorizzare il prodotto, incassare maggiori proventi, alla fine, gioverà anche a tutte le altre leghe.

A tal proposito, in molti esprimono l’esigenza di una revisione della Legge Melandri con una ripartizione più equa delle risorse.
È un’esigenza che comprendo. E che sarebbe più semplice da soddisfare aumentando i ricavi da distribuire. Per questo occorre perseguire più che singole innovazioni una riforma complessiva del calcio italiano.

Inclusi nuovi format dei campionati?
Da tempo sto portando avanti un progetto di modifica dei format delle competizioni che le rendano più incerte e quindi più attraenti per il pubblico, potenziando il meccanismo dei play off. Ma penso altresì a modifiche regolamentari e normative che modernizzino l’ordinamento sportivo. Nell’attuazione della legge delega mi auguro che si dia il giusto rilievo all'apprendistato, una novità a cui tengo molto, per favorire l’inserimento dei giovani calciatori negli organici. A patto che non venga solo vista coma un'opportunità fiscale. L’apprendistato deve essere l’occasione per ripensare alla formazione dei giovani, come atleti e come persone, nonché il modello delle accademie e degli incentivi.

Il semiprofessionismo può essere un'altra misura utile in questa direzione?
Certamente. Non bisogna avere tabù. Riformare il calcio italiano significa rivedere le regole che governano tutta la piramide che va dalla Serie A alla base del movimento senza pregiudizi, ma con spirito innovativo.

In questo modello sarebbe opportuno anche dotarsi di infrastrutture moderne.
Concordo. Il tema dei nuovi stadi, delle arene, dei palazzetti, e dei centri sportivi come luoghi di aggregazione e come propulsori di sviluppo economico e culturale è stato troppo sottovalutato in questi anni. È indispensabile fare di più.

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