di Guido Gentili
Coronavirus e lavoro: la crisi ha colpito donne, giovani e precari
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Quando si dice tutto da fare, o da rifare. I dati Istat sull’occupazione piombano sul tavolo del programma convocato dal Presidente “esploratore” Roberto Fico. E così i fulmini squarciano il velo dell'ipocrisia che da mesi, tra un rinvio ed un altro in nome dell'emergenza, consentiva un galleggiamento. Magari contando sulle virtù salvifiche di una spesa pubblica infinita nel tempo e nello spazio.
La realtà s’impone due volte. La prima è contabile: da febbraio 2020 (esplosione Covid-19) a dicembre l’occupazione ha segnato un calo di 426mila posti di lavoro (312mila donne). A dicembre, in particolare, la flessione è stata pari a 101mila posti, dei quali 99mila relativi alle donne. Colpita in generale la fascia di età tra i 25 e i 49 anni (soprattutto under 35), il lavoro autonomo e quello a tempo determinato. Scende l’occupazione, salgono gli inattivi.
La foto di un tracollo che colpisce i più deboli e i meno garantiti in un mercato del lavoro in transizione. E dove gli effetti di Covid-19 si sono sommati alla rivoluzione già in corso nelle catene del lavoro (le forniture, ad esempio) a causa dei radicali cambiamenti del commercio mondiale.
La realtà s’impone poi una seconda volta. Quando presenta il conto a una risposta solo emergenziale, fondata su una distribuzione pressoché incondizionata di risorse per fronteggiare le perdite di reddito e sul blocco dei licenziamenti (soluzione italiana inedita). Risposta che non ha fermato l’emorragia di lavoro. Certo, è stata la carta giusta nella prima fase, quella dei tricolori alle finestre e del lockdown, quando c’era da reagire per infondere fiducia. Ma poi? I risultati 2020 dicono altro e quelli del mese di dicembre (sono stati persi in questo mese la metà dei lavori creati tra luglio e novembre) suggeriscono che i problemi si sono infittiti e non sciolti come neve al sole.
Di più. Non aver distinto la stagione emergenziale da quella successiva, facendoci trovare impreparati al cospetto del nuovo, pesantissimo shock sanitario e poi riproponendo lo schema dell’intervento a pioggia misto al blocco dei licenziamenti, ha impedito quella riflessione sul da farsi che sarebbe dovuta scattare ben prima.
È rimasta al palo la riforma degli ammortizzatori sociali, polarizzata tra quelli che tutelano il lavoro subordinato e quelli che semplicemente non esistono per il lavoro autonomo e parasubordinato. La ricollocazione è restata anch’essa ancorata (si fa per dire) all’esperienza dei Centri pubblici per l’impiego e ai navigator. La riqualificazione del lavoro, altro tema fondamentale per un Paese che si misura con un deficit di competenze vasto come il lago di parole in cui annaspa la decantata valorizzazione del “capitale umano”, è una pagina da scrivere e attuare in concreto.
In un’Italia dove crescono gli “inattivi” e la tendenza all’idea sciagurata che risorse finanziarie, pubbliche e infinite, possono sostenere (a debito) il reddito, le politiche attive del lavoro non sono facili da impostare e realizzare. Ma di queste si parla da mesi, anzi da più di un anno, quando a dicembre 2019 scattò in pratica la “verifica” del secondo Governo Conte, poi interrotta all’inizio del 2020 dallo tsunami sanitario.
Le riforme bloccate sono un tema ricorrente nella storia italiana. Nel 2021, con il piano europeo straordinario Next generation Eu, l’Italia ha l’occasione per aggiornarle e metterle in pratica. Perché, piaccia o no, queste sono collegate direttamente alla possibilità di incassare la pioggia di miliardi europei che scroscerà su Roma solo a fronte di un recovery plan italiano credibile. Ma soprattutto perché è nell’interesse nazionale realizzarle: i dati Istat atterrati sul tavolo della crisi politica dicono questo.
Guido Gentili
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