di Marco Onado
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È sempre più chiaro che l’emergenza economica causata dalla pandemia non può essere affrontata solo usando in maniera più generosa strumenti concepiti per un mondo che dava per scontato che la crescita fosse lo stato naturale delle nostre economie. Purtroppo l’impatto sul sistema produttivo è tremendo e per evitare una massiccia perdita di posti di lavoro e di capacità produttiva delle imprese bisogna mettere l’economia in terapia intensiva. Questo richiede uno sforzo finanziario senza precedenti, da economia di guerra, come afferma l’editoriale di ieri del direttore. Anche Robert Chote, il responsabile dell’Office of budget responsibility britannico ha detto che il governo non si deve preoccupare del deficit perché sta fronteggiando un’emergenza simile a quella bellica.
I leader europei, soprattutto del Nord, sembrano invece convinti che si debbano usare i vecchi strumenti, magari in modo più elastico, ma senza troppa generosità. Dunque, se deve intervenire il Meccanismo europeo di stabilità, che si applichino ai beneficiari (si fa per dire) condizioni stringenti per garantire il rientro nell’alveo della disciplina fiscale perché così si è stabilito a suo tempo. Vecchi e imperfetti strumenti per nuovi e drammatici problemi.
Keynes diceva: «Quando le situazioni cambiano, io cambio idea. E lei cosa fa, signore?» Una domanda da rivolgere ai politici dei Paesi del Nord che stanno dispensando pillole di velenosa saggezza sui criteri da adottare per gli interventi a livello europeo. Ci sono invece almeno due campi in cui bisogna cambiare radicalmente le regole che hanno finora scandito il funzionamento dell’Europa.
Il primo riguarda appunto il debito pubblico. Se non coglieremo questa occasione per superare l’idiosincrasia all’emissione di titoli sovranazionali (le proposte abbondano) vorrà dire che questa Europa è troppo avviluppata nei suoi egoismi per concepire il minimo sforzo solidaristico. Se non riusciremo a concepire un piano comune di interventi e di opere pubbliche equivalente a quello che è stato il piano Marshall nel dopoguerra, l’opinione pubblica vedrà – e con ragione – solo il volto arcigno e micragnoso delle istituzioni di Bruxelles e voterà di conseguenza.
Analoghe considerazioni valgono per il mandato della Bce che, per timori di lassismo fiscale, è stato concepito in modo molto rigido, ma che dopo la crisi finanziaria è stato via via allargato nella prassi, grazie soprattutto all’abilità di Mario Draghi (e la gaffe della signora Lagarde dimostra come i passi indietro siano sempre in agguato). Sarà sempre più difficile tendere l’elastico dell’interpretazione del Trattato per legittimare interventi sempre più eterodossi.
Oggi negli Stati Uniti anche l’ultra destra repubblicana è in favore di interventi di helicopter money (cioè soldi distribuiti direttamente a famiglie e imprese) finanziati dalla banca centrale. Anche Adair Turner, già capo della Financial services authority britannica, ha detto che monetizzare il debito pubblico (cioè farlo comprare direttamente dalla banca centrale) è una soluzione ineluttabile.
Ma non basta. Nonostante le misure straordinarie annunciate da tutte le banche centrali, Bce compresa, la liquidità continua a scarseggiare nel mercato monetario e obbligazionario a causa della raffica di vendite provenienti dai gestori di fondi che devono fronteggiare un’ondata eccezionale di rimborsi. Nel fine settimana ben due banche statunitensi, fra cui Goldman Sachs, sono dovute intervenire per aiutare i loro fondi monetari. Esattamente come era successo (gli scongiuri sono di rito) nel 2007 per Bear Stearns e altri intermediari poi vittime della crisi.
Non a caso, la Fed ha allargato la gamma dei titoli comprati (per ora quelli ipotecari) varcando un Rubicone dell’ortodossia monetaria. Finora le banche centrali erano il prestatore di ultima istanza nei confronti delle sole banche ordinarie. Con interventi di questo tipo stanno diventando “market maker di ultima istanza” e dunque svolgono un ruolo che finora era stato affidato al mercato. Il quale però non funziona sempre in modo efficiente per un sistema finanziario diventato sempre più grande e sempre più complesso: Presi a sberle dalla mano invisibile era il titolo ironico del libro di Gary Gorton, dell’Università di Yale, sulla drammatica rarefazione della liquidità che ha preceduto la crisi del 2008.
Tutto questo significa che oggi non solo è necessario spendere somme eccezionali, ma bisogna anche adattare le istituzioni alla nuova realtà e soprattutto evitare di mettere i Paesi più colpiti con le spalle al muro. È già successo dopo la prima guerra mondiale con le dure clausole imposte alla Germania dal trattato di Versailles che suscitarono le ire di Keynes. E sappiamo come è andata a finire.
Marco Onado
editorialista
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