di Guido De Franceschi
Karl Ove Knausgård è nato nel 1968. Il suo romanzo “La mia battaglia”, in sei volumi, è uscito in Norvegia tra il 2009 e il 2011.
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«Per il cuore la vita è semplice: batte finché può. Poi si ferma»: con questo incipit era cominciato tutto. Adesso, 4.160 pagine dopo, con la pubblicazione del suo sesto e ultimo volume intitolato Fine, si conclude anche in Italia La mia battaglia, il ciclopico romanzo di Karl Ove Knausgård. E si conclude così anche la mia battaglia di lettore con questo mastodonte di carta, dieci anni dopo l'uscita del primo volume in italiano.
«Il compito della letteratura», scrive lo scrittore norvegese, «non è l'esaustività, è la costruzione dell'inesauribile». Infatti, benché ora La mia battaglia sia giunta a un punto finale, io, che sono arrivato sano e salvo fino all'ultima frase, continuo a pensare a questo libro. E lo faccio con lo stato d'animo del reduce, di chi ha attraversato un'esperienza estrema anche se, forse, comune a molti. Leggere Knausgård è come quando vivi in una grande città e la percorri a notte fonda in macchina, lungo strade deserte. Mentre procedi ti sembra di vedere cose che si concedono soltanto ai tuoi occhi. Lo sai che intorno a te, dentro le case, ci sono milioni di persone. Ma tu, lì fuori, ti senti solo e in un luogo speciale, anche se ti riconosci in tutto quello che vedi. È la tua città: riaffiorano ricordi, segui percorsi conosciuti e sei orientatissimo. E lo stesso accadrebbe anche a tutte le persone che ora dormono intorno a te, se fossero in macchina al tuo posto. Perché è la tua città, ma è anche la loro città e quindi la vostra città. Eppure, mentre percorri le solite strade, hai la sensazione di attraversare una terra inesplorata, quanto meno in quel modo e in quel preciso istante e con quel taglio di luce e con quella percezione del tempo dilatata o compressa.
Ecco, leggendo La mia battaglia di Karl Ove Knausgård mi sono riconosciuto continuamente in Karl Ove, nel protagonista che scrive quel libro inesauribile di cui è il protagonista. E, benché io sia certo che anche moltissimi altri fra i lettori di questo romanzo monstre si siano riconosciuti in Karl Ove, mentre ero in mezzo a tutte quelle pagine ho comunque pensato di continuo di essere da solo in un posto magico. Un posto stupendo e banale e orribile. Un posto in cui non ero mai stato, anche se lo conoscevo bene. E ho di continuo pensato che in quel posto non c'era mai stato nessun altro – quanto meno non in quel modo e non in quel preciso istante, con quel taglio di luce e con quella percezione del tempo. Peraltro Knausgård ricama molto proprio sull'“io”, sul “tu”, sul “noi” e sul “loro”, ovvero su quanto il gioco tra questi pronomi, che poi non è altro che la sublimazione dei rapporti tra l'individuo e gli altri, significhi per la scrittura e per la vita – e per la vita di chi si è dedicato a scrivere, o ci ha quanto meno provato, come lo stesso Knausgård o Paul Celan o Adolf Hitler. Sì, Hitler; in norvegese il titolo del romanzo di Knausgård, La mia battaglia, suona Min Kamp e più non dimandate, almeno per adesso.
È difficile ripercorrere la parabola knausgårdiana in poche righe. Il romanzo La mia battaglia esce in Norvegia, in sei volumi, tra il 2009 e il 2011 (per quanto riguarda la versione in italiano, nel 2010-2011 escono per Ponte alle Grazie i primi due volumi, con la traduzione di Lisa Raspanti. Feltrinelli, nel 2014, li farà ritradurre a Margherita Podestà Heir e porterà poi a compimento la pubblicazione dell'intera opera). La mia battaglia è un esperimento, precoce e radicale, di autofiction, anzi è l'auto-dissezione del corpo e dell'anima di un giovane scrittore.
La vita vi è descritta in scala 1:1. Quindi, se ci vogliono cinque minuti a trovare due calze non spaiate da infilare sui piedini della figlia, allora ci vorranno cinque minuti anche per leggere le righe dedicate alla ricerca di quelle due calze. Il successo in patria è clamoroso. Ma subito esplode anche una parossistica curiosità morbosa per l'autore di questo strano romanzo, che è atterrato nelle librerie di un popolo pudico e taciturno coinvolgendo persone vere e raccontando nel dettaglio tutto quello che nelle famiglie, e non soltanto in Norvegia, non ci si azzarda neppure a sussurrare.
Poi arriva la traduzione in inglese. E un fiume di inchiostro viene versato su giornali e riviste prestigiose per consacrare Knausgård come stella planetaria, complice la sua faccia da prepensionato del grunge, o per additarlo come il re dei cialtroni, complice, un'altra volta, quella sua faccia. C'è chi lo considera il nuovo Proust, scovato per caso sotto un lichene in riva a un fiordo. Altri pensano invece che si tratti della più grande truffa della letteratura contemporanea. Alcuni hanno opinioni più sfumate, ma sono pochi perché il Nostro è divisivo. Ora, dopo 4.160 pagine, anche il mio senso critico, lo ammetto, è un po' offuscato. Ma mi vengono in mente almeno quattro buone ragioni per cui bisogna assolutamente leggere le prime 2.880 pagine per poi dedicarsi a Fine.
Uno. Il fondo del catino in cui galleggiano questi sei volumi, che ospitano tutte quelle cose sgradevoli illuminate da una luce cruda che hanno attirato la maggior parte delle attenzioni dei giornali, non è poi così nero. «Sei la persona più ottimista che conosca», dice a Karl Ove il suo amico Geir. «Un ottimista depresso. Ecco cosa sei». D'altra parte, scrive lo stesso Karl Ove, l'arte tende «verso il punto più estremo dell'esistenza, cioè la morte, sul cui sfondo riluce la vita, che di colpo diventa qualcosa di prezioso e inalienabile, dunque carico di significato». E la “battaglia” dello scrittore norvegese – il cui primo volume parla di «due figli che seppelliscono il proprio padre morto» (la sintesi di quelle 512 pagine è dello stesso Knausgård), il cui secondo volume racconta di «un padre di bambini piccoli frustrato che si mette a nudo davanti al lettore» (la sintesi di quelle 656 pagine è sempre sua) e avanti così di allegria in allegria – è in realtà molto, ma molto piena di vita e di un ottimismo che sarà anche depresso ma è pur sempre ottimista.
Due. «Se aveste imparato a fare conversazione dai film, potreste pensare che la gente concluda regolarmente le telefonate senza salutarsi», scrive la linguista Gretchen McCulloch in Because Internet. «E che fastidio!», aggiungo io. Ecco, in Knausgård ogni telefonata inizia e si conclude con una coppia di “ciao”. E per questo sembra sempre una telefonata vera.
Tre. Knausgård dedica una parte di Fine al Mein Kampf e al giovane Hitler, visto che il suo romanzo ha lo stesso titolo (ed è di nuovo il suo amico Geir a incaricarsi di ricordare a Karl Ove la genesi di questa scelta: «Lo hai detto tu, in una frase, la mia battaglia, e io ho commentato, ecco il tuo titolo. È andata così». «Oh, cazzo», replica Karl Ove). Knausgård si rivolge al tema hitleriano con l'approccio naïf, e quindi davvero appassionante, di un liceale e con la verbosità torrentizia, e quindi davvero knausgårdiana, di un ossessivo. Se poi questa sezione vi annoia potrete saltarla: sarebbe un peccato, ma Karl Ove non lo saprà mai. Comunque la cosa più importante è che Knausgård introduce questa digressione con la frase:«Avevo deciso di scrivere alcune pagine sul libro di Hitler». Di pagine sul libro di Hitler ne ha poi scritte quasi 500, ma non è mai tornato indietro a correggere quell'“alcune”. E, ne sono quasi certo, non gli è neanche scappato da ridere.
Quattro. Mentre accompagniamo ogni mattina i bambini di Karl Ove all'asilo, fumiamo con lui centinaia di sigarette sul balcone, lo osserviamo scrivere alcune pagine sul Mein Kampf, lo aiutiamo a scaldare bancali di polpette di carne o a caricare decine di lavastoviglie, insomma proprio quando stiamo scivolando in quel meraviglioso stato che ci spinge torpidi verso la pagina successiva, ecco che Karl Ove ci trafigge con qualcuna di quelle cose che conosciamo così bene da non volerle mai confessare neppure a noi stessi, perché ci fanno troppa paura. E siamo molto grati a Karl Ove per aver detto quelle cose al posto nostro.
Karl Ove Knausgård
Fine
Feltrinelli 2020
1.280 pagine
27 euro
Traduzione di Margherita Podestà Heir
(Il libro è il sesto volume del romanzo
La mia battaglia)
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