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Stesi sul lettino del presente

di Angela Vettese

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La mostra «Untitled, 2020» alla Punta della Dogana indaga la vita che fugge, il corpo che invecchia e l’amore che passa. Ma anche la voglia di continuare a meravigliarsi

5 agosto 2020
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4' di lettura

Thomas Houseago (Leeds 1972) è un ragazzone inglese dal torace vasto e dalla voce rotta e sottile. Così sono i anche corpi rappresentati dalle sue sculture, sovente enormi, esposti al pubblico in posizione frontale e monumentale, ma smangiati nei materiali e ridotti in alcuni punti alla sola struttura, uno scheletro di ferro che espone insieme la forza e la debolezza della struttura sotto la carne.

È con una di queste figure, in piedi davanti a noi come un dio protettore, ma anche umile come un bambino interrogato, che incomincia la mostra Untitled, 2020. Three Perspectives on the Art of the Present, curata dallo stesso artista insieme a Caroline Bourgeois e l’artista-teorica Muna El Fituri. Siamo alla Punta della Dogana di Venezia, dove già nel 2015 fu chiamato un artista, Danh Vo, a curare un’esposizione. Non si tratta di un’operazione così nuova, se si pensa ai Salon autoprodotti degli Impressionisti o a Robert Morris che, nel 1968, chiama nove artisti a esporre in un garage con la benedizione del gallerista Leo Castelli, ma certo è un atto inconsueto in anni in cui la figura del curatore è diventata specifica e potente. A sottolineare l’occhio soggettivo che guida il percorso, anche se sempre accompagnato, corretto, discusso da quelli delle altre due organizzatrici, sta il fatto che l’ultima stanza del percorso sia stata trasformata in un loft che ricopia lo studio di Houseago a Los Angeles, inclusi i libri che possiede, i divani su cui il pubblico può stendersi, l’atmosfera da lavori in corso.

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Standing

La mostra inizia dunque non a caso con un’opera in cui l’artista dichiara di esporsi, in una stanza intitolata Standing (letteralmente «stare in piedi», ma anche esporsi) che allude a una studiata, sofferta, sincera, passionale operazione di messa a nudo. Il contraltare di quella scultura è del resto un gigantesco cerchio di stoffa rossa di Magdalena Abakanowicks, eseguito quando l’artista viveva in un piccolo appartamento nella Polonia comunista e non poteva permettersi altra operatività che tessersi letteralmente addosso questi drappi: la censura non capiva e non sapeva, poi, fermarne il dispiegarsi scandaloso. Poco lontano compaiono i disegni di Henry Moore sui rifugi durante la guerra, proprio di fronte a un grande bassorilievo bianco latte di Charles Ray in cui compaiono due ragazzi innocenti, ma ingigantiti al punto da farli diventare imbarazzanti.

Le opere di 67 artisti

Le stanze si succedono esibendo le opere di 67 artisti nati tra il 1840 e il 1995, alcune provenienti dalla collezione Pinault e altre raccolte, alcune realizzate per l’occasione, come quelle di Saul Fletcher, Kasia Fudakowski, Ellen Gallagher, Lauren Halsey and Henry Taylor. Qualche partecipazione, come quella dell’amico fraterno di Houseago Enrico David, italiano, è stata inserita nello spazio in modo anomalo (un quadro sospeso al soffitto) e completata con una scultura ad hoc, seguendo una regola di contrappunto che pervade l’esposizione come fosse una musica. Ogni spazio espositivo tocca un tema scottante e vicino all’interiorità, come la morte, il sesso, la perdita, l’urlo. Qualcosa si era già visto nel medesimo luogo, come la ricostruzione del bordello per veterani del Viet Nam Roxy’s di Edward Keinholz (1961), ma il nuovo contesto ne fa emergere il lato inquieto. Alcuni artisti si ritrovano in numerose sezioni, come l’austriaca Valie Export, performer femminista che non ha mai risparmiato provocazioni e sarcasmi, più forti nei suoi anni settanta che nel nostro decennio disinfettato: oggi anche le tematiche più difficili vengono affrontate con estetismo e melanconia, come dimostra il video del belga trendy Daniel Steegman Mangrané, dedicato alla bellezza e fragilità della natura. Impegno, amore e morte si incrociano di continuo, come nel video di Arthur Jafa esplicitamente intitolato Love is the Message, the Message is Death (2016) o nei dipinti del pittore afroamericano Robert Colescott, il primo nero ad avere avuto un Padiglione Americano alla Biennale di Venezia, che non a caso è inserito in una sezione dedicata alle complessità insite nelle identità nazionali. Come complessa è la stessa storia dell’arte, a guardare le sculture apparentemente preistoriche della brasiliana Solange Pessoa: un linguaggio fatto di pietre che crea un cortocircuito tra ready made, archeologia e le forme semplificate del modernismo.

In tutto questo e nonostante il lindore dell’allestimento, sembra di incrociare a ogni passo il dolore per la vita che fugge, per il corpo che invecchia, per l’amore che passa, per la democrazia che si caria; e d’altro canto occhieggia la commozione di chi, comunque, continua a volersi meravigliare. Una mostra meno emotiva non sarebbe stata adatta a questi mesi: nonostante sia stata preparata in anni di discussioni, come attesta la conversazione che introduce il catalogo, cade in un tempo in cui siamo predisposti alle sensazioni pungenti e non accetteremmo una temperatura meno passionale. Un caso o una preveggenza, non importa; chi non vuole rimuovere e sa affrontare, qui si può fare devastare da un percorso-opera fuori dal canone, e che sa dimostrasi struggente.

Untitled, 2020. Three Perspectives on the Art of the Present, Venezia, Fondazione Pinault-Punta della Dogana, fino al 13 dicembre. Catalogo Marsilio

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