di Gianmarco Ottaviano
(EPA)
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Si sono appena conclusi i negoziati tra gli stati membri dell’Unione europea sul Recovery Fund, il “fondo di ricostruzione” di circa 750 miliardi di euro creato per aiutare le economie europee a riprendersi dallo shock del Covid-19. L’acceso dibattito si è concentrato sia sulla suddivisione del fondo tra sussidi e prestiti sia sulla questione della loro “condizionalità”, cioè in che misura le elargizioni dovessero essere condizionate alle scelte di politica economica dei Paesi beneficiari.
Le trattative hanno anche affrontato il nodo dei criteri di allocazione delle risorse tra gli Stati membri. L’Ue avrebbe dovuto favorire i Paesi più colpiti dalla pandemia? Se sì, quali criteri avrebbe dovuto privilegiare: il numero di vittime, la fragilità pregressa dell’economia o magari la vulnerabilità al dipanarsi degli effetti economici della pandemia nei prossimi mesi (e magari anni)? Nella sua proposta sul Recovery Fund, la Commissione europea aveva suggerito criteri di allocazione legati principalmente ai tassi di contagio e ai risultati economici passati. In questo senso, tale proposta conteneva implicitamente sia un elemento assicurativo (i Paesi più contagiati ottenevano più risorse) sia un elemento ridistributivo (i Paesi con un reddito nazionale lordo pro capite più basso ottenevano più risorse). I leader nazionali hanno preferito dare maggior peso al primo elemento che al secondo, collegando più chiaramente l’allocazione delle risorse al danno economico della pandemia.
Tuttavia, per una più efficace gestione delle ricadute della crisi pandemica in Europa nei mesi a venire, sarebbe stato auspicabile allocare le risorse del Recovery Fund in maniera più proattiva che reattiva, prendendo maggiormente in considerazione la vulnerabilità futura delle regioni europee determinata dalla loro struttura industriale.
In base al numero delle vittime e alla fragilità economica pregressa, è piuttosto immediato stabilire come distribuire le risorse del Recovery Fund. È forse per questo motivo che la Commissione europea suggeriva quei criteri di allocazione. Un approccio che sembra ragionevole se si considera che l’impatto economico dell’epidemia è stato finora relativamente omogeneo tra Paesi. Omogeneità confermata dalle stime della Commissione di un calo medio del tasso di crescita del Pil del 7,4% su base annua per l’Ue, con una variabilità tra Stati intorno alla media relativamente limitata e comunque di ben sette volte inferiore alla variabilità dei decessi.
Anche la decisione dei leader nazionali di privilegiare il danno economico della pandemia quale criterio di allocazione del Recovery Fund ha il vantaggio di un’oggettiva chiarezza. Potrebbe nondimeno peccare di scarsa lungimiranza, qualora fossimo disposti a distogliere lo sguardo dal passato per rivolgerlo al futuro. In prospettiva, la geografia economica della vulnerabilità europea ai possibili effetti futuri della pandemia potrebbe essere molto diversa da quella dei danni passati. La ragione è che, come discusso in una recente analisi svolta con Carlo Altomonte e Andrea Coali per il think tank Bruegel di Bruxelles, le regioni europee sono diversamente esposte a due tipi di vulnerabilità, interna ed esterna.
I fattori di rischio interni riguardano le conseguenze economiche del contagio locale, determinate non solo da possibili nuove ondate epidemiche, ma anche dall’impatto dell’adozione di nuovi standard di sicurezza, impatto che varia molto tra settori e dunque tra regioni a seconda della loro specializzazione settoriale. Sul fronte esterno, la vulnerabilità riguarda soprattutto la partecipazione delle economie regionali alle catene globali del valore, nella misura in cui il dilagare della pandemia al di fuori dell’Europa potrebbe mettere a rischio l’import-export di materie prime, semilavorati e prodotti finali.
Nei negoziati sul Recovery Fund questi aspetti avrebbero potuto essere considerati maggiormente, al fine di disegnare un’allocazione non solo più efficiente, ma anche più equa delle risorse messe a disposizione. La prospettiva regionale avrebbe permesso anche di evidenziare due aspetti. Il primo (e più ovvio) è che, anche in tema di vulnerabilità, le differenze tra le diverse aree dello stesso Paese possono essere molto più pronunciate che tra i diversi Paesi. La seconda (e meno ovvia) è che gli interessi di alcune aree dei Paesi più “frugali” possono essere in linea con quelli di alcune aree dei Paesi meno “frugali”, indebolendo la contrapposizione polemica di inutili stereotipi.
Gianmarco Ottaviano
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