di Giulio Peroni
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C'era un tempo in cui le favole andavano in onda senza pubblicità, in bianco e nero, con la calda e rassicurante voce di Mina che prendeva per mano ogni traccia di vita italiana. Che allora fumava di rabbia e lotte, ma ancora più spesso di talento e stravagante novità. E poi c'era quella strana voglia di fuga nell'impossibile, anche nel calcio, ineluttabile segno di ordinaria qualità. Quegli anni, i primi anni 70, quelli degli americani in Vietnam, della valanga di scioperi nell'Autunno Caldo, del tentato golpe di Junio Valerio Borghese, non erano troppo lontani dalla guerra. Si contavano ancora i lutti, tutto era di guadagnato. Brama di costruire, ballare, vino in damigiana, pane e salame. E dalla fame, quella vera, nascevano storie di ricchezza umana. La vera matrice dell'epica.
Come la storia irripetibile, certamente indimenticabile, del Grande Cagliari di Gigi Riva. La squadra che consacrò talento e grandezza di un'isola, avvicinandola e restituendola (per sempre) all'Italia. Il Cagliari di Cera, Nenè e Domenghini. Albertosi, Gori e Niccolai. Campioni fino a lì, fino a quell'incredibile trionfo del 1970, non ancora campionissimi. Figli di un sogno e di una storia comune, uomini diventati grandi già da bambini. Che sul campo (e fuori) erano guidati da Manlio Scopigno, allenatore filosofo e parecchio anticonformista, che amava andare contro, divorare libri e qualche bicchiere di whisky. Un tipo fuori dal pensiero unico pallonaro, ma perfettamente allineato a quei tempi di rielaborazione compulsiva. Capace di farsi licenziare (e poi riassumere) dal Cagliari per colpa di una pipì fatta in un cespuglio durante una tournée negli Stati Uniti.
Il goal in rovesciata di Gigi Riva in L.R. Vicenza-Cagliari del 18 gennaio 1970 (Ansa)
Lui e gli altri. Sono i protagonisti di quello squadrone leggendario. Quello dello scudetto del campionato 1969/ 1970. Della Sardegna che forse da quel momento diventa (davvero) regione d'Italia. Orgogliosa, festante, soprattutto esemplare. La Sardegna al centro del mondo. Non più ai confini dell'impero. «Quel trionfo è stato il vero ingresso di quell'isola in Italia», scrisse Gianni Brera. Sono passati 50 anni da allora. Da quella impresa eterna. Appesa sui muri dei bar, nei ristoranti dell'isola. Cinquant'anni mai sbiaditi. Un fermo immagine.
L'ultima foto, forse la più bella, l'ha scattata Luca Telese nel suo “Cuori Rossoblu” (Solferino Libri). Un testo che arriva da una penna autenticamente sarda. La stessa che qualche anno fa raccontò nel bellissimo libro “Cuori Neri” ventuno storie di delitti di giovani di destra, negli anni e nella cultura corrente/trasversale del refrain “uccidere un fascista non è reato”. Stavolta l'autore mira al calcio, al suo battito eterno. Giornalista e procacciatore di poesia, Luca Telese si lancia nella narrazione di un trionfo collettivo e sociale. Più ancora nel ritratto speciale dell'uomo umile (fatalmente calciatore) che trasforma difficoltà e lotta in una occasione di crescita verticale. Arrivando a scavallare gerarchie e realismo.
L'Unione Sportiva Cagliari, in quella stagione padrona del campionato sin dalle prime battute, in vantaggio di due punti sulla rivale Juventus già alla fine del girone d'andata, Gigi Riva capocannoniere del torneo e la convocazione di sei cagliaritani nella Nazionale di Ferruccio Valcareggi a Messico 70 (secondo posto), aveva tante facce differenti, accomunate da fatale alchimia. Su tutte spiccava quella di Riva, il cannoniere. Un artista geometrico e muscolare che parlava goal e malinconia quasi avessero la stessa forma.
Aveva la faccia di tanti suoi compaesani (lui è di Leggiuno, provincia di Varese) che arrivano dalla sponda lombarda del Lago Maggiore, non quella sfarzosa piemontese degli alberghi a 5 stelle di Stresa e Baveno, ma quella maledettamente sublime ed intimista dell'Eremo di Santa Caterina di Leggiuno, dell'imponente e misteriosa Rocca di Angera. Gigi, per tutti “Rombo di Tuono”, era uno di quei ragazzi del 70. Uno dei sedici calciatori di quel Cagliari. «Arrivano dalle valli, da un'Italia contadina ed operaia. Dalla provincia, dalla nebbia. Molti - si legge nel libro - dal profondo Nord. Questi ragazzi erano un insieme impressionante di felici anomalie. Portano il primo scudetto al Sud, ma uno solo di loro è un figlio del meridione. Quasi tutti diventeranno sardi, ma nessuno di loro lo è all'anagrafe».
Sono quasi tutti nati e cresciuti in famiglie numerose, padri inflessibili, madri provvidenziali. Con un passato di lavori precoci in fabbrica o in fonderia. Questi sardi d'adozione (ma sardi per sempre) hanno lavorato prima di essere calciatori. Praticamente impossibile ai giorni d'oggi. «I ragazzi giocano con i quattro mori cuciti sul petto. E tatuati nel cuore, assorbono dalla terra che li ospita una durezza nuragica che non li abbandonerà mai». Storie di calcio e vita. Storie dell'altro mondo.
Telese ci racconta la strada di questi eroi. Il loro tortuoso percorso fino allo striscione del traguardo. Il più impensabile, il più desiderato. Per questo, semplicemente il più logico. Impercorribile nel nuovo millennio. Nella stagione del fair play finanziario, del piccolo (e del grande) che devono restare tali. Nel periodo dell'oscurantismo dell'utopia e del sogno che non piacciono granché al circo del calcio, ancora meno al sistema eccentrico-oligopolista del suo core business. C'è stato un miracolo Leicester in Inghilterra (quello di Claudio Ranieri che vinse la Premier nel 2016), sarà molto difficile rivedere in terra d'Italia quello del Cagliari 1970 e del Verona 1985.
Questa storia, infatti, è la storia di sedici campioni e del guru che li guidò. Ma è e resterà per sempre la storia antichissima dell'imprevisto provvidenziale, ovvero il punto esatto del tempo in cui si produce una frattura, uno schianto. La sovversione epocale di ogni regola data. «È il prodigio» direbbe Eugenio Montale «che schiude la divina indifferenza».
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