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Cancellare i debiti pubblici porterebbe alla fine dell’euro

di Natacha Valla e Christian Pfister

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(EPA)

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La proposta di “condonare” i debiti contratti per mitigare l’impatto della pandemia è talmente insensata da far dubitare della buona fede dei suoi autori

29 novembre 2020
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4' di lettura

In Francia e in Italia, recentemente, si sono levate voci in favore di una cancellazione del debito pubblico detenuto dalle banche centrali. Questo articolo dimostra, con argomenti semplici, che si tratta di una proposta semplicemente insensata, tanto da spingere a chiedersi se i suoi fautori non abbiano in realtà come obiettivo quello di minare alla base la moneta unica.

Lasciamo da parte qualsiasi considerazione legale, come quella derivante dall’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che vieta il finanziamento monetario. Chi beneficerebbe realmente della cancellazione del debito pubblico detenuto dalle banche centrali?

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Non gli Stati dell’Eurozona, visto che al momento non incontrano nessuna difficoltà a finanziarsi sul mercato, come dimostrato dai livelli storicamente bassi dei tassi di interesse sui mercati del debito sovrano. Chiedere una cancellazione del debito da parte delle banche centrali non solo sarebbe inutile, ma anche controproducente. Sollevando i timori degli investitori, che avrebbero paura di poter diventare le prossime vittime di un default pubblico, una richiesta del genere determinerebbe un incremento dei premi di rischio inclusi nei loro costi di indebitamento, e di conseguenza a un incremento del costo del debito pubblico.

Nemmeno i risparmiatori europei beneficerebbero della cancellazione del debito pubblico in mano alle banche centrali: l’aumento dei tassi di interesse e dei premi nei mercati del debito sovrano si tradurrebbe in una perdita di valore per i risparmi investiti in assicurazioni sulla vita o fondi pensione.

Infine, metterebbe a rischio l’indipendenza della banca centrale e la credibilità della valuta, alimentando la diffidenza degli investitori e quindi un aumento dei premi di rischio.

In considerazione di tutto questo, non c’è da stupirsi che nessun governo si sia avventurato ad avanzare una richiesta del genere.

Quanto alle banche centrali stesse, non hanno nessun interesse a trasformare attività in passività. La cosiddetta «cancellazione» del debito, infatti, non cancellerebbe nulla. I titoli di Stato verrebbero semplicemente sostituiti da perdite nel bilancio delle banche centrali. Alla data del 2 ottobre 2020 l’Eurosistema, che mette insieme la Bce e le banche centrali dell’area dell’euro, aveva acquistato titoli (per la maggior parte emessi da organismi pubblici) per 3.454 miliardi di euro, contro 109 miliardi di capitali e riserve. Questi acquisti erano stati fatti non per alleviare il peso del debito pubblico nel breve periodo, ma per ragioni di politica monetaria, nello specifico influenzare i tassi di interesse a lungo termine in un momento in cui non era possibile abbassare ulteriormente i tassi ufficiali. In caso di una cancellazione del debito, l’Eurosistema chiaramente non potrebbe distribuire alcun profitto positivo prima di aver risanato la sua situazione finanziaria: altrimenti si aprirebbe la porta a un finanziamento illimitato della spesa pubblica realizzato «stampando moneta» (o con meccanismi analoghi) e la fiducia nella nostra valuta subirebbe un colpo irreparabile. Dal momento che la banca centrale non sarebbe più in grado di pagare dividendi agli Stati membri detenendo il loro capitale (e verosimilmente questa situazione si protrarrebbe per parecchi anni), l’Eurosistema li costringerebbe a trovare nuove risorse (per esempio… tasse) per assicurare la loro solvibilità, il che ci riporterebbe alla situazione di partenza. Come si può vedere, la «cancellazione» del debito pubblico detenuto dalle banche centrali è più che altro un gioco delle tre carte.

Tutti questi argomenti sono cose di buon senso. Sarebbe offensivo pensare che i fautori della cancellazione del debito da parte delle banche centrali non vi abbiano pensato. Dovremmo quindi ipotizzare che stiano avanzando sotto mentite spoglie e in realtà puntino a far fuori la moneta unica? A tale proposito, è bene tenere a mente i seguenti elementi.

Il primo è che attuare una strategia di rottura con l’attuale ordine economico e sociale non è una strada percorribile nel quadro delle istituzioni europee. Il governo greco fece l’amaro esperimento di dichiarare lo stato di insolvenza sul debito pubblico, che fu tagliato drasticamente del 70 per cento. In seguito a questo default, il Paese subì una recessione pesantissima, lunga quasi sette anni. Lo scenario di lasciare l’Eurozona, reintrodurre la dracma e svalutarla per beneficiare di un vantaggio competitivo (per sua stessa natura transitorio) sarebbe stato molto più costoso. Il costo del debito denominato in euro sarebbe stato più alto e il Paese avrebbe perso accesso al sostegno del Fmi e delle istituzioni europee. Inoltre, adottando misure protezionistiche e attuando politiche di repressione finanziaria (controlli sui capitali, gestione dei tassi di interesse, introduzione di obblighi di acquisti di titoli di Stato per banche e compagnie assicurative), avrebbe costretto la Grecia a uscire dall’Unione europea.

Una seconda opzione sarebbe che le istituzioni europee, a partire dall’Eurosistema, decidessero di autoaffondarsi. Ma anche in questo caso, esattamente come prima, la «cancellazione» del debito pubblico deteriorerebbe i bilanci dell’Eurosistema per un periodo indefinito, danneggiando gravemente la credibilità dell’euro. Come indicato prima, questo sarebbe accompagnato inevitabilmente da un incremento dei costi del debito pubblico e perdite per gli investimenti in contratti assicurativi e fondi pensione. Questa ridistribuzione sarebbe amplificata dall’eterogeneità della composizione del debito pubblico detenuto dalle banche centrali. Infatti, per effetto dell’abbassamento dei livelli di debito pubblico in alcuni Paesi dell’Eurozona, le loro banche centrali nazionali hanno dovuto acquistare titoli emessi da altri Paesi per raggiungere la loro quota di acquisti di attività prevista dalle esigenze di politica monetaria. Considerando che ovviamente non combacerebbe con una visione unanime del ruolo delle banche centrali, la «cancellazione» del debito pubblico instillerebbe un forte elemento di divisione tra gli Stati membri, e questa divisione, a sua volta, potrebbe condurre a una dissoluzione dell’Eurozona e dell’Unione europea.

La distruzione dell’euro è il vero scopo dei sostenitori della cancellazione del debito pubblico? In qualunque caso, l’opinione pubblica merita una spiegazione.

Natacha Valla è preside della School of Management and Innovation presso Sciences Po a Parigi; Christian Pfister è vice direttore generale della Banca di Francia.

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