di Marcela Serrano
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Ho fatto grandi sforzi per non amare gli oggetti. Si perdono, si rompono, non si sa mai dove metterli. Quando visito case troppo piene, mi prende un senso di soffocamento. Io non collezionerei mai niente. La cosa più vicina al collezionismo, per quanto mi riguarda, sono i tanti quaderni e notes che mi regalano, sempre rilegati in modo prezioso e con carte molto belle. Li tengo sulla scrivania e li prendo quando ne ho bisogno, ma poco dopo ne arrivano altri e quello scaffale non si svuota mai. Ricordo, però, un oggetto che amavo moltissimo.
All'epoca vivevo a Roma, in esilio, e il mio compagno di quel periodo mi regalò una collana turca. Non avevo mai visto niente di simile nel mio paese natale e mi sono subito affezionata. Era d'argento e dalle sue catene pendeva un cilindro lungo cinque centimetri che poteva essere aperto, tanto da costituire una minuscola scatola. Avresti potuto tenerci dentro un foglio arrotolato, una poesia, una lettera d'amore. Lo usavo tutti i giorni e mi piaceva il rito di aprirlo e leggerne il contenuto. L'ho indossato in ogni viaggio, non me ne sono mai separata. La collana è sopravvissuta alla fine di quella relazione e sono tornata in Cile insieme a lei, anche se non conteneva più lettere d'amore. Ho iniziato a scrivere foglietti da sola. Piccoli pezzi di carta con una frase tratta da qualche poesia amata o, talvolta, un promemoria e anche una ciocca di capelli della mia prima figlia. Era uno scrigno, il mio bene più caro.
Un giorno, in mia assenza, hanno fatto irruzione in casa mia. La collana era appoggiata sopra un vassoio sulla mia cassettiera. Quando sono arrivata, non c'era più. Era un oggetto perfetto da rubare. Ricordo di aver provato un nodo alla gola. Poi un'altra voce mi ha parlato, quella mia voce che, nei momenti difficili, viene fuori, e ha detto basta, è solo una collana, non ci piangerai sopra, vero? Ecco, ho deciso di dimenticarla. Oggi me la sono ricordata: dove sarà, dal collo di quale donna penderà? Non importa. Tutto ha il suo ciclo.
Da quando sono nata, ho sempre visto un enorme dipinto ad olio appeso a casa di mio padre che raffigurava l'Ultima Cena. Era largo circa due metri e lungo un metro. Basato su quello di Leonardo da Vinci, aveva la stessa struttura, ma i personaggi erano diversi. C'era Cristo insieme agli apostoli, ma avevano sembianze autoctone, direi con un tocco latinoamericano. Una volta ho chiesto a mio padre la sua origine e mi ha detto che era stato dipinto da un monaco sconosciuto in una chiesa di Santiago del Cile durante il XIX secolo. Mi sono abituata a vederlo, così come si ci assuefà a tutti gli oggetti che hanno fatto parte della casa dell'infanzia. Quando sono tornata in Cile, dopo quattro anni di esilio, tutto era cambiato. La villa di famiglia non esisteva più, mio padre era stato cacciato dall'Università dove lavorava e le mie sorelle se ne erano andate. Vivevano in un appartamento di dimensioni normali e nella sala da pranzo non c'era spazio per ospitare l'Ultima Cena. Mi rivelarono che era conservata in un magazzino. Mio padre mi disse solennemente che, visto il mio amore per l'arte, aveva deciso di regalarla a me.
Mi ero costruita una piccola casa prefabbricata - con i suoi soldi, ovviamente, io non avevo niente - sulle pendici della Cordillera progettandola con alte pareti. Quindi, sono andata al magazzino e ho recuperato il dipinto, con molte difficoltà perché non entrava in auto, occorreva un camion. Lo appesi all'unico muro che poteva sopportare il suo peso e lì sembrava bellissimo. Era il periodo della dittatura, nessuno ci dava lavoro, tutte le persone che gravitavano intorno a me avevano enormi problemi finanziari. Così, quando entravano in casa e vedevano quel dipinto, rimanevano sorprese, come se la sua presenza non corrispondesse alla nostra condizione. Tenevamo riunioni clandestine sotto gli apostoli e alcuni compagni che erano senza casa - per motivi politici - dormivano ai loro piedi, protetti da questo Gesù tanto ben dipinto. Diversi anni dopo, lasciai la casa della Cordillera, ero diventata madre e mi stabilii in un appartamento vicino al lavoro, per non stare troppo lontana da mia figlia appena nata. C'era solo un grande muro nel nuovo appartamento, che serviva da scaffale per i libri. Vivevo con un poeta che, con diritto sacrosanto, preferiva i libri a questo strano, enorme dipinto. Alla fine però la spuntai, trovando luoghi inventati e angoli fantasiosi per i libri. E l'Ultima Cena rimase installata lì per anni, come un elefante in una scatola di fiammiferi.
Quando tornò la democrazia, il padre della mia seconda figlia fu nominato ambasciatore. Andammo a vivere in Messico per sei anni. E il dipinto? Venne in Messico con me. Fu appeso nell'enorme sala da pranzo di quella splendida ambasciata e quello fu il periodo più lussuoso e divertente della sua esistenza. Ho trascorso l'intero periodo della pandemia nella mia casa di campagna a guardarlo. Eccolo di fronte a me, il mio karma. Alcuni anni fa, mia madre è morta e ci ha lasciato in eredità il terreno in cui viveva. Abbiamo deciso con le mie sorelle di costruirci le nostre case, ognuna indipendente, ma vicine. La maggiore delle mie figlie, che è architetto, si è presa cura della mia. Quando ha progettato le pareti, le ho ricordato che una doveva essere destinata al famoso dipinto. Ricordo che rise: “Sì lo so, mamma, lo so”. Come poteva non saperlo? Ha partecipato a ogni rompicapo e ogni tentativo di trovargli spazio in ciascuna delle case in cui abbiamo vissuto. L'ho appeso in sala da pranzo - una stanza che si apre all'esterno e può essere vista da tutta la casa. Non si muoverà più, che sollievo per l'Ultima Cena e per me.
(Marcela Serrano, nata a Santiago del Cile nel 1951, è considerata una delle voci più importanti della narrativa sudamericana. Nel 1973, a causa del golpe di Pinochet, si trasferisce a Roma; torna in Cile quattro anni dopo, dove si diploma in incisione e lavora in diversi ambiti delle arti visive, prima di dedicarsi alla scrittura. Il suo primo romanzo, Noi che ci vogliamo così bene, è del 1991 (in Italia esce nel 1996 per Feltrinelli) e si aggiudica in Messico il Premio Sor Juana Inés de la Cruz e in Francia il premio della casa editrice francese Côté des Femmes. Successivamente pubblica, sempre con editore Feltrinelli, Il tempo di Blanca (1998), L'albergo delle donne tristi (1999), Antigua, vita mia (2000), Nostra signora della solitudine (2001), Quel che c'è nel mio cuore (2002), Arrivederci piccole donne (2004), I quaderni del pianto (2007), Dieci donne (2011), Adorata nemica mia (2013), Il giardino di Amelia (2016) e, lo scorso anno, Il mantello).
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