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Adriano Giannini e questo insolito agosto nell’azzurro mare italiano

di Michele Weiss

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fotografie di Mattia Balsamini per “IL”

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Il trasferimento a Milano e poi il lockdown, momento che l’attore ammette di aver usato per immaginare nuovi progetti anche con la moglie, Gaia Trussardi, a cominciare dalle favole per bambini. Ora le vacanze e poi chissà forse il teatro «una volta o l'altra, ma devo ancora trovare un progetto che faccia per me», dice

4 agosto 2020
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9' di lettura

Milano zona Navigli, ultima settimana di maggio, parco Baden Powell. La brezza trasporta l'intenso profumo dei falsi gelsomini, il sole del primo pomeriggio scalda dolcemente e qualche bimbo si affaccia esitante nell'area giochi. Adriano Giannini arriva con un cappellino in testa, shorts carta da zucchero, camicetta di lino bianca sbottonata e, sopra la mascherina d'ordinanza, occhiali da sole vintage a celare gli occhi smeraldini. Sembra caracollare un po' tirandosi dietro un bel labrador al guinzaglio. Ci sediamo su un muretto. Si scusa per il ritardo, ma era dal veterinario con Alma. «Che vogliamo fa'? Va bene qui?», dice con una leggera cadenza romana. «Aspetta che devo trova' da accendere», e si allontana verso due ragazze che così velato non lo riconoscono, però qualcosa intuiscono visto che non lo perdono di visto quando le ringrazia e si allontana.

Adriano abita a due passi dal parco con la moglie Gaia Trussardi, con cui ha condiviso il lockdown dopo essersi trasferito da Roma lo scorso settembre, dopo il matrimonio. «Eh, sembro un robot, ma ho giocato a tennis con il maestro: è la prima volta da mesi e non volevo smettere…Ma ora sto' a pezzi, ho male dappertutto». Sorrido, perché è come se venissi investito da un effetto madeleine proustiana, un pensiero fulminante che non avevo avuto qualche giorno fa, sul set fotografico del servizio di moda che state sfogliando in questo momento, quando io e Adriano ci siamo accordati per questa intervista: io e lui ci siamo già conosciuti, da ragazzi, in Inghilterra, a una vacanza di tennis e inglese. Glielo dico. «Maddai, è vero, Southport! Certo che mi ricordo, ma guarda, sei proprio tu?».

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Sì, sono io, e tu eri bravo a tennis, mentre io preferivo il calcio.
«Abbastanza, lì si giocava sull'erba, era bellissimo… A proposito, ma a Milano ci sono i campi in erba? Colpa del virus, non ho ancora potuto conoscere la città. A pelle mi piace, ma ho fatto appena in tempo a traslocare e finire i lavori in casa che poi è arrivata l'epidemia. Comunque sì, il tennis lo adoro. Non avessi fatto il cinema…».

A quei tempi impazzava il dualismo Borg e McEnroe.
«Mc tutta la vita! Ma io adoravo Adriano Panatta. Quando lo incontro a Roma, mi sento ancora un bambino adorante, e penso che lui si renda conto che lo guardo come un dodicenne; ma per fortuna ammicca. Ci ho anche giocato una volta, ovviamente mi ha massacrato, con quel polso… Ancora quello di una volta».

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Il matrimonio, una nuova casa, una nuova città: come è andato il tuo lockdown, è stata dura?
«Un po', ma non mi sono annoiato per niente. Da solo e con mia moglie, ho sperimentato nuove cose, ho inciso audiolibri e imparato a montare filmati (ha curato il video di una canzone di Gaia, un esperimento non privo di magia, nda). E poi ho scritto favole».

Davvero?
«Sì, favole per bambini, forse anche per adulti. E pure un monologo teatrale che ho buttato giù così, senza pensare. Cose strane, insomma, ancora di più perché io a scrivere ho sempre fatto fatica».

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La quarantena ha fermato il Paese, e ora ripartire è complicato. Le previsioni preoccupano. Tu che cosa ne pensi?
«Ero e resto ottimista, eppure sì: la situazione è difficile e confusa. Qui in Lombardia bisognerà capire bene quello che è successo. Avremo bisogno di gente capace più che mai: spero che i nostri politici mettano da parte i protagonismi e davvero pongano l'interesse della cosa pubblica davanti a tutto. A volte, la politica non la capisco: a parole, tutti interessati al bene comune… Ma allora com'è possibile che siano in contrapposizione su tutto? Ti viene da pensare che il bene che perseguono non sia così tanto “comune”, e che alla fine prevalgano soltanto gli interessi di parte».

La crisi travolge tutto, compreso il cinema. Come se ne esce?
«Eh, dobbiamo ancora capirlo, siamo ancora nel ciclone. Le produzioni sono tutte ferme, si stanno studiando i protocolli per poter tornare a lavorare, ma è un casino. Non so davvero che cosa succederà».

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Per fortuna la tecnologia ha attenuato il disagio, consentendo alla gente di lavorare, almeno un po', e di restare in contatto.
«Abbiamo potuto sperimentare cose nuove. Oggi realizzare un progettino, girare un corto, per esempio, con le camere che ci sono, è facilissimo. Oppure penso ai progetti di lettura con Audible (lui è stato la voce narrante del thriller Auris, nda), e ad altro ancora. È cambiato tutto, in pochissimi anni. Io mi sono formato con la “pizza” e la pellicola: mamma (Livia Giampalmo, che si è separata dal padre Giancarlo subito dopo la sua nascita, nda) faceva la regista e la doppiatrice, mi portava negli studi e io scappavo in qualche sala di montaggio, dove mi regalavano scarti di pellicola con cui montare il mio film immaginario».

Il papà stella del cinema, la mamma doppiatrice e regista: vivi nel cinema da una vita.
«Non lo so. In realtà, non aspiravo a fare cinema da ragazzo, piuttosto, come dicevo prima, lo sportivo: ero dotato, ma non abbastanza competitivo. Sul set dei film di papà non ci andavo mai. Però certo, è vero, i miei facevano quello di mestiere. Al cinema sono arrivato così, un po' per caso, anche se magari ora non ci si crede: avevo fatto la maturità, era appena morto mio fratello per un brutto male e avevo voglia di lavorare e diventare indipendente. Ho chiesto a mia mamma di trovarmi un lavoro qualsiasi sul set, e ho cominciato come assistente dell'assistente operatore. Finché un giorno, mancando un operatore, ho avuto la mia chance. È andata bene, mi sono divertito e per dieci anni è stato il mio lavoro. Mi piaceva e si guadagnava bene, è stata una fortuna».

Quindi, non volevi fare l'attore…
«Manco per sogno. Ricordo che mi avevano fatto un paio di proposte
al riguardo, ma non ero dell'idea. E infatti ho cominciato per caso».

Adesso, però, lo sei, e hai successo.
«È andata come doveva andare (ride, nda). Quel ragazzo stava bene a fare ciò che faceva. Quel ragazzo-macchinista me lo porto ancora dentro, è lo stesso che non si ritrova nel successo, che non nasconde il suo carattere un po' schivo e i suoi difetti… Uno che fatica a riconoscersi nel “personaggio” che fa shooting fotografici e interviste che per lui non hanno così tanto senso. Come tutti, vado dove la vita mi ha portato».

Forse è successo soltanto quando ti sei sentito pronto a sopportare il confronto con un padre-attore così famoso.
«Be', tieni conto che ho cominciato a fare l'attore con il remake di un suo grande successo (Travolti da un insolito destino, rifatto da Guy Ritchie e con la partecipazione di Madonna, nda): quanto a Edipo, non scherziamo mica, no? (ride, nda). Mi pare non fosse mai successo che un figlio rigirasse così, un film del padre. Ancora adesso non so bene come sia capitato. Lasciamo perdere, c'est la vie…».

Edipo a parte: hai lavorato con grandi registi e grandi attori in tutto il mondo. A quale autore ti senti più vicino?
«Per sensibilità a Bertolucci. Ma amo tutti i grandi registi che hanno saputo inventare un linguaggio nuovo, tradurre in progetti la potenza dell'immaginario aggiungendoci dirompenza emotiva: Tarantino, Kubrick, Kusturica, Fellini, Kurosawa, Scorsese, i Cohen… Il cinema americano mi ha dato tantissimo, alcuni film mi hanno segnato dentro, come Big Fish di Tim Burton, una favola che mi ha fatto ridere da un occhio e piangere dall'altro. Quella dimensione in cui emerge la complessità dell'animo umano è fondamentale. Poi ci sono altri, come Paul Thomas Anderson…».

E Nanni Moretti? Hai recitato nel suo ultimo film, Tre piani, con cui saresti dovuto andare al Festival di Cannes…
«In realtà per Cannes si parlava anche di un altro film in cui ho recitato, Lacci, di Daniele Luchetti. Di Nanni non voglio parlare. Dico solo che gli voglio bene e nel nostro mondo l'affetto e l'amicizia tra registi e attori non sono così frequenti. Il film non l'ho ancora visto, io facevo la parte di quello che non c'era mai… Il libro è molto bello, l'ho ripreso in mano perché forse devo farne una lettura».

Quali altri registi contemporanei italiani ti ispirano: Garrone? I gemelli D'Innocenzo, di cui tutti parlano per Favolacce?
«Garrone tanto di cappello, un grande; i D'Innocenzo non sono ancora riuscito a vedere un loro film, rimedierò subito».

Ieri operatore, oggi attore; domani regista?
«Perché no? Ho già girato due corti e mi piacerebbe fare un lungometraggio, prima o poi, vedremo quando; in Italia non è così semplice, il sistema è complicato e non aiuta».

Porti avanti anche importanti progetti di doppiaggio: sei stato la voce di Matthew McConaughey in True Detective, hai vinto il Nastro d'Argento per il doppiaggio di Joaquin Phoenix in Joker .
«Joker è stata dura. Quando ho potuto vedere il film in anteprima, mi sono detto che sarebbe stato difficilissimo rendere la voce e le sfumature di un malato interpretato genialmente da Joaquin: non basta la tecnica, occorre entrare nell'anima dell'attore originale. Ero talmente preso che mi sembrava stessi andando malissimo, invece gli americani della produzione mi dicevano che no, andava tutto bene. Insomma, stavo per diventare matto anch'io».

Anche tuo papà Giancarlo ha doppiato un Joker.
«Sì, è stato la voce di Joker-Jack Nicholson in Batman di Tim Burton. Tra l'altro, per me il personaggio non era nuovo, visto che avevo doppiato il Joker interpretato da Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro di Nolan: mi sa che Joker è roba della famiglia Giannini… Scherzi a parte, il doppiaggio mi piace molto, ma ho paura che la grande scuola italiana si stia smarrendo».

Hollywood ti tenta?
«In realtà no, in America ci sono già stato, ho fatto belle esperienze, ma quella società non fa per me, non ci vivrei, mi sento troppo diverso. A Hollywood sono tutti così dediti al profitto e non hanno storia. È un mondo un po' disumano: preferisco l'Italia, nonostante tutto».

Quindi che progetti hai per il futuro?
«Come dicevamo prima, con il Covid è tutto fermo… Mi sa che continuerò con le favole, conoscerò meglio Milano e poi magari con Gaia andremo in vacanza, in Italia, al mare. Ma tu lo sai quando? Magari, visto che mi piacciono le letture e l'interpretazione con la voce, farò il teatro, una volta o l'altra, ma devo ancora trovare un progetto che faccia per me: però l'idea mi tenta, prima del lockdown ho letto Lo straniero di Camus a Fabriano, e stare sul palco è stata una bella sensazione; quindi magari ci arriverò. Intanto, sto scrivendo un monologo, vediamo… Prima però devo finire le mie favole».

Ancora le favole? Sembra un'ossessione… Non è che ti stai preparando per la paternità?
«(Ride, nda) Inshallah…».

Come gestisci la tua carica seduttiva?
«Sono guardingo, lotto per non restarne vittima. Non sono come molti altri attori, che devono sedurre in continuazione, mietendo sempre la vittima di turno per poi abbandonarla come Don Giovanni. Ho avuto le mie storie, anche lunghe, mi piace relazionarmi con le donne in maniera normale, senza cadute nevrotiche o peggio. Poi che la seduzione – che è emotiva, intellettuale e fisica – faccia parte del mio mestiere e della vita è un altro discorso, ma ripeto: senza cadere nel tranello del giochetto seduttivo infinito. Occorre sapersene servire, fermandosi in tempo».

Sembri un ragazzo, ma l'anno prossimo compirai 50 anni: l'età della saggezza, appunto…
«Ho appena fatto i 49, e non ci voglio pensare (ride, nda), ma penso che il mito dei passaggi d'età vada relativizzato. A volte mi sento 80 anni addosso, per dire… E poi i 50 anni di oggi sono molto diversi da quelli delle scorse generazioni: l'età è come ti senti tu; poi certo che se gioco a tennis tre ore con un trentenne, torno a casa in carriola…».

Ti capita di avere paura? Temi la malattia o la morte?
«Be', quella della morte è la madre di tutte le paure: ne nascono pensieri enormi, riesco solo a immaginare un cielo notturno pieno di stelle, bello… Ma a un certo punto c'è qualcosa che non so capire, un vuoto e un infinito, e mi viene paura. Mi piacerebbe, un giorno, poter dire di non avere più timore della morte».

Come immagini i tuoi anni a venire?
«Chissà… Intanto voglio mettermi a fumare il sigaro cubano, con il rum, e smetterla con 'ste sigarette. In realtà, sono felice perché questa della scrittura è un'insicurezza che mi sto togliendo, ho combattuto con la pagina vuota e ora so che cosa vuol dire. Le favole non sono un'ossessione, ma trovo che mi facciano riscoprire una parte di me vicina all'infanzia, una parte fondamentale che porta a un immaginario – quello del bambino – molto importante per il mio mestiere. Morale: cercherò di tener vivo il fanciullo interiore, ma senza regressioni! Però ci tengo, perché solo i bambini sanno ancora sognare in questa nostra società sempre più cinica e stressata».

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