Cultura
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L’immaginario di Obey. La street art e i simboli della libertà

di Veronica Costanza Ward

Immagine non disponibile

Nella Torre del Magazzino del Sale di Cervia, fino al 4 giugno, MetaMorfosi Eventi presenta “Obey, Make Art Not War”

21 marzo 2023
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2' di lettura

Settantatré opere, provenienti da collezioni private, costituiscono un flusso narrativo organico che mostra, attraverso l'opera di Obey, come la Street Culture - a partire dal Graffiti-Writing - si sia nel tempo trasformata in Street Art e Urban Art mantenendo inalterata la propria carica critica e sovversiva, nonostante ormai parte integrante del sistema e del mercato dell'arte internazionale.

Sintesi di questo percorso, l'immagine guida della mostra “We the People, are Greater than Fear”, opera parte di una campagna contro l'intolleranza verso altre culture e religioni, realizzata con l'obiettivo – come Shepard Fairey scrive – di promuovere l'apprezzamento per le diversità etniche, religiose, culturali, di genere.

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Un ventennio di Street art

L'esposizione percorre, attraverso le opere di Obey, non solo il lavoro e l'evoluzione dell'artista ma un intero periodo, un ventennio della Street art, il cui linguaggio si muove e si trasforma al ritmo dei cambiamenti sociali, urbani, delle migrazioni culturali, dell'evoluzione dei metodi comunicativi. Obey, come Banksy segnano una fase di passaggio a una dimensione nuova della Street Culture. Tra la fine degli anni Novanta e l'inizio del duemila i materiali non sono più le bombolette spray usate per scrivere e dipingere sui muri, ma cominciano ad essere utilizzati stencil (Banksy), sticker e poster. La Street Art acquisisce una nuova dimensione performativa e assume la forma della comunicazione sociale e virale.La generazione di Obey ha frequentato accademie o scuole di design e utilizza il linguaggio del design e delle arti per veicolare la forza e i messaggi che ha visto nella Street Culture per dare vita a un movimento artistico globale. Obey riesce a creare una cultura del logo in assenza di oggetto da vendere, la marca non marca, in cui è esplicita la critica al consumismo attraverso un'immagine che non sponsorizza nulla ma ha un messaggio estremamente potente.

Obey e la Street Culture al Magazzino del Sale di Cervia

5 foto

«Liberté, égalité, fraternité»
«Obama Hope»
«We the people. Defend dignity»
«We the people. Greater than fear»
«We the people. Protect each other»

Il suo primo soggetto, il wrestler André de Giant, dei primi anni Novanta diventa forse la più imponente campagna di guerrilla marketing del Novecento. Alla fine degli anni Novanta, Shepard Fairey (vero nome dell'artista) sostituisce il viso di André The Giant con il logo Obey, incarnando un “obbedisci” che viene riarticolato dai giovani verso le generazioni precedenti come atto di disobbedienza, ironico ma assertivo messaggio contro la cultura del potere. Esperto di storia del design e della comunicazione, Fairey recupera la grafica futurista, il suprematismo sovietico, anche nella scelta estetica della quadricromia, la propaganda maoista e il muralismo storico latinoamericano. Nel biennio 2008-2010, in occasione della realizzazione da parte di Obey del manifesto “Hope” (parte del trittico, VOTE HOPE PROGRESS) con il volto di Obama per la campagna elettorale per le presidenziali statunitensi, avviene la massima consacrazione mainstream di un fenomeno underground. Il critico d'arte Peter Schieldahl l’ha definita la più efficace illustrazione politica americana dai dai tempi dell'I WANT YOU dello Zio Sam.

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