di Nicola Barone
Ucraina, Lavrov: una guerra nucleare non è nella mente dei russi
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Per il panico da fantomatici effetti nucleari nelle farmacie è corsa all’accaparramento di medicinali a base di iodio. Le autorità sanitarie regionali e centrali provano a disinnescare l’allarme. Nella situazione attuale la corsa a questi farmaci è scientificamente inopportuna. Cominciamo dunque dalla conclusione.
«L’acquisto compulsivo di integratori e pillole di iodio, a seguito della invasione che sta avendo luogo in Ucraina, rappresenta un atteggiamento privo di giustificazione. Solo nel caso di un comprovato incidente nucleare vi è indicazione all’assunzione preventiva di ioduro di potassio (le abituali dosi contenute negli integratori alimentari non sono in grado di bloccare la tiroide) e le misure profilattiche devono essere prese esclusivamente a livello di sanità nazionale». A fare da guida è il professor Enrico Papini, uno dei più eminenti esperti di scienze endocrinologiche nel mondo. Con la premessa di sopra, «assumere di propria iniziativa iodio in compresse senza una reale motivazione, e senza la prescrizione medica, non solo è sbagliato ma può essere dannoso per la salute». Del resto, come chiarito dall’Istituto superiore di sanità insieme a varie società scientifiche, «solo in caso di una reale emergenza nucleare, al momento inesistente nel nostro Paese, sarà la Protezione Civile a dare precise indicazioni su modalità e tempi di attuazione di un eventuale intervento di profilassi iodica su base farmacologica per l’intera popolazione». L’unica raccomandazione generale riguarda l’uso di sale iodato.
I tragici eventi in Ucraina e i combattimenti che hanno avuto luogo intorno alla centrale di Chernobyl hanno suscitato il timore di un incidente nucleare. «Il rischio di un fall-out nucleare che coinvolga in modo clinicamente rilevante e non prevedibile il territorio italiano è, tuttavia, basso in considerazione della elevata distanza (Roma dista oltre 2000 km da Chernobyl). Appare comunque utile una messa a fuoco di questo improbabile ma potenzialmente drammatico problema».
Dipendono dall’intensità e dal tipo delle radiazioni assorbite. «Le sostanze più importanti rilasciate in seguito a un incidente nucleare sono: lo iodio-131 (131I), lo stronzio-90, assorbito dall’osso, che può causare tumori ossei e leucemia; il cesio-137 che si accumula prevalentemente nei muscoli; il plutonio che può causare tumori del polmone. Nelle persone che si trovano nelle immediate vicinanze (alcuni km) della fuga di un materiale che emette radiazioni ad elevata intensità i danni maggiori e più precoci sono al midollo osseo e all'intestino. Si sviluppano così anemia grave, elevata suscettibilità alle infezioni, emorragie pluridistrettuali e gravi turbe della alimentazione». Questa sindrome acuta da radiazioni si verifica solo per livelli di radioattività molto elevati e non riguarda la popolazione generale ma solo il personale che si trova all’interno o in stretta prossimità del reattore al momento dell'incidente. «Per la popolazione che vive nelle zone limitrofe, o che mangia alimenti contaminati, il rischio è dovuto alla ingestione con il cibo, o alla inalazione con l’aria, di sostanze disperse in seguito all'incidente. Caratteristica è stata la produzione di latte radioattivo in seguito all’incidente di Chernobyl, come conseguenza dell’erba contaminata mangiata dalle mucche».
Tra le sostanze radioattive disperse nell’ambiente in seguito al danno di un reattore di una centrale nucleare c’è lo iodio-131. «Lo iodio si accumula prevalentemente nella tiroide e vi persiste per alcuni giorni irradiandola. L’irraggiamento della tiroide da parte di basse dosi di 131I non necessariamente esita in un danno clinicamente rilevante. Infatti, il nostro organismo è dotato di sistemi per la riparazione dei danni indotti da basse dosi di radiazioni, a cui siamo costantemente esposti per la presenza di elementi radioattivi nel terreno e per l’esposizione alle radiazioni cosmiche (personale aereo)». Ovviamente, quando i danni da radiazioni eccedono la capacità riparatrice dell’organismo si traducono in una condizione morbosa che è tanto più rilevante con l’aumentare della dose di radiazioni a cui è esposta la tiroide. «Per livelli di radiazioni elevati (tecnicamente, > 100 mSv nell’adulto) la probabilità di ammalare di tumore della tiroide aumenta significativamente. Poiché l’esperienza di Chernobyl ha mostrato che i tumori della tiroide indotti dalle radiazioni compaiono dopo una latenza di dieci-venti anni si rende necessaria, in queste circostanze, una sorveglianza medica per tutta la vita dei soggetti contaminati.
«Bambini di età minore di 10 anni, per la marcata sensibilità della tiroide alle radiazioni in età pediatrica, e donne in stato di gravidanza, perché il feto è particolarmente sensibile agli effetti nocivi delle radiazioni: nel primo trimestre, durante la formazione degli organi, possono verificarsi malformazioni a vari organi; a partire dal secondo trimestre, quando la tiroide è già formata e funzionante, lo iodio radioattivo assorbito dalla madre, si accumula anche nella tiroide del feto. Questo può ridurre la capacità della tiroide di produrre ormoni e determinare un quadro di ipotiroidismo congenito». Un’altra categoria a rischio aumentato sono i pazienti affetti da insufficienze renale in terapia con dialisi, a causa di una ridotta capacità di eliminare le sostanze radioattive contaminanti. «Fortunatamente l’Italia sta uscendo dalla condizione di carenza endemica di iodio grazie alla profilassi iodica ormai ampiamente in atto. Questo rende la nostra popolazione, come accaduto nel caso di quella Giapponese dopo l’incidente di Fukushima, meno vulnerabile nei confronti della esposizione a basse dosi di radiazioni».
Per la contaminazione della tiroide da 131I, «la somministrazione di una dose soprafisiologica di iodio non radioattivo, sotto forma di ioduro di potassio (KI), può ridurre, fino a bloccare, l’accumulo dello iodio radioattivo all’interno della tiroide. È tuttavia importante ricordare che la somministrazione di questo farmaco non trova indicazione nei soggetti adulti-anziani a seguito di una dose di radiazioni modesta (00 mSv).L’efficacia della somministrazione di KI varia in relazione alla modalità di assunzione: è massima quando viene assunto in modo preventivo, iniziando due giorni prima della contaminazione, per diminuire gradualmente con il passare del tempo fino ad annullarsi se somministrato 4 giorni dopo l’incidente. In caso di importante contaminazione, l’assunzione deve durare per cinque giorni. Normalmente viene prescritta la soluzione di Lugol al 5%, preparata in farmacia previa presentazione di ricetta medica. È importante ricordare che lo KI deve essere assunto solo se raccomandato dalle autorità sanitarie locali, soltanto in seguito a prescrizione medica e sotto controllo medico. Una inopportuna assunzione di KI, infatti, può determinare sintomi influenzali, mal di testa, lacrimazione, congiuntivite, arrossamenti del volto, dolore alle ghiandole salivari, laringite, bronchite e, soprattutto, condizioni di ipo- o ipertiroidismo fino a quel momento latenti». La contaminazione da cesio, stronzio e plutonio causa problemi complessi per riuscire ad arginare i danni alla popolazione. «Esistono farmaci che possono essere impiegati per la contaminazione di organi diversi dalla tiroide da parte di queste sostanze radioattive. La prescrizione di tali medicamenti (quali il Ca-DTPA) è però riservata ai pazienti sotto sorveglianza in centri specializzati per la gestione di incidenti nucleari».
Nicola Barone
Redattore
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