di Angelo Flaccavento
Bella Hadid in passerella per Fendi
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Ritorno a dove eravamo esattamente due anni fa: l’emergenza pandemica non è ancora ufficialmente terminata, ma la moda anticipa sempre e decreta che così è. La fashion week milanese si è aperta ieri sotto i migliori auspici e un ottimismo energizzante. Conta quasi per intero show in presenza, affastellati in un calendario così fitto e denso da richiedere, forse, un giorno in più.
Le audience non sono più distanziate, in molti sono tornati a presenziare con o senza invito, e in generale si riafferma lo status quo, con una ansia di compensazione che quasi intenerisce, e l’oblio totale dei buoni propositi da lockdown che invece impensierisce. Ripartire dal passato, del resto, è un principio fondamentale della dinamica modaiola. Alla peggio è nostalgia che paralizza nelle ripetizioni alla meglio è invito a nuove interpretazioni.
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La prima giornata di sfilate, in effetti, intreccia tutta una tessitura di sguardi su ciò che è stato per immaginare il qui e ora. Da Fendi, Kim Jones abbandona la velleità di un radicale ripensamento del codice - invero, finora, non tanto radicale - e riporta l’estetica della maison romana dentro il gineceo familiare che la rende così potente. Però, sposta l’attenzione su Delfina, figlia di Silvia e giovane donna dallo stile insieme severo e voluttuoso, ritroso e sfrontato, e sul suo guardaroba, nel quale i pezzi Fendi ereditati dalla madre si incrociano in sincronie diacroniche. La collezione muove, senza nostalgia, da due storiche prove del compianto e insostituibile Karl Lagerfeld: l’omaggio a Memphis - il movimento di design, non la città - del 1986 e le leggerezze e trasparenze eteree della primavera/estate 2000. Dalla crasi di queste due citazioni, amalgamate nel segno della femminilità matronale, bollente come il ghiaccio, di Delfina, nasce una espressione sicura e convincente, nella quale la freddezza un po’ asettica che finora è stata tipica di Jones si scalda ed evapora, mantenendo un contegno.
Un look della sfilata Giada AI 22-23
Anche da Giada la temperatura complessiva si alza, mentre il corpo si rivela senza però troppo concedere: Gabriele Colangelo, il direttore creativo, parla di una donna che è fiore tra le rocce, ma la immagina più eterea, in realtà, che coriacea.
Daniele Calcaterra lavora in sottrazione: il suo purismo fatto di volumi aumentati e tessuti preziosamente corposi emana carattere e sensualità, e vibra nello spazio che si crea tra corpo e vestito.
Nulla è lasciato all’immaginazione da Diesel, dove si guarda di nuovo al passato - gli anni Novanta dell’apogeo irridente e deliberatamente trash del marchio - per immaginare un nuovo presente. Alla guida creativa, Renzo Rosso mette un cavallo di razza: Glenn Martens, il designer più dotato della nuova guardia. Questa è la seconda collezione, ma la prima sfilata fisica per Martens. La sua visione di Diesel parte dal denim e da quel che ci sta intorno, distorcendo in ogni possibile direzione, sempre con una verve sardonica che strappa un sorriso e convince.
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Guarda ai propri personali anni novanta Ennio Capasa, che riparte con il marchio Capasa Milano nel segno di uno spirito elegantemente abrasivo che non si è mai assopito nonostante siano passati sei anni dalla fine di Costume National. Seduzione e glamour sono temi caldi della stagione, in un riaffiorare di corsetti e paillette da boudoir d’antan. Ci vogliono l’esperienza e il gusto sicuro di un designer come Alessandro Dell’Acqua per maneggiare questi materiali in maniera non ovvia: da N°21, amalgama sbrilluccichii e tweed, volumi e aderenze, maschile e femminile - topos a lui parecchio caro - con piglio secco e svagato, e fa centro.
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Luccica tutto, persino i grossi maglioni a trecce, in fine, da Alberta Ferretti, dove una luce notturna e siderale cade radente sul guardaroba femminile. Il risultato è a tratti pesante, ma il romanticismo scintilla.
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