di Giuseppe Lupo
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Ammesso che la modernità sia terminata con il declinare del Novecento e sostituita da qualcosa che non sempre (e non convintamente) può riconoscersi nei paradigmi del postmoderno, resta inalterata la necessità di ripensare a come essa si è affermata nel secolo scorso, in Italia, e quali sono stati i segni inconfondibili delle sue epifanie. Naturalmente sarebbe velleitario esaurire un argomento di così ragguardevoli ambizioni nella concisione di una formula, però gli esempi non mancano, come testimoniano gli scritti contenuti nell’ultimo numero della rivista-libro «L’Ospite Ingrato» (n. 6, 2021), dedicato a «Umanesimo e tecnologia. Il laboratorio Olivetti» (a cura di D. Balicco, Quodlibet, pagg. 394, € 24). Il più convincente di tali esempi assume l’etichetta dell’antitesi – «classicismo del nuovo» o «classicismo moderno» – presente in due contributi del volume, il primo dei quali dedicato ai rapporti tra Edoardo Persico e gli ambienti olivettiani nella Milano degli anni 30, l’altro concernente il lavoro di copywriter, svolto da Franco Fortini in seno alla Olivetti. Sia l’uno che l’altro affermano nella sostanza la medesima verità, cioè che è esistito un tempo, esteso più o meno dalle due guerre fino agli anni 60, in cui il dialogo fra creatività e produzione industriale è riuscito a esaudire tanto le prospettive economiche quanto le più raffinate esigenze estetiche.
Bellezza e utilità, dunque, due elementi che avrebbero accompagnato quella che a tutti gli effetti si candida a essere riconosciuta come la strada italiana al capitalismo occidentale: una particolare maniera di declinare le regole del taylorismo senza rinunciare ai princìpi di una civiltà democratica e al rispetto per la persona umana.
Daniele Balicco, uno dei contributori del volume, fa sue le riflessioni contenute nel saggio della storica statunitense (ma di origini italiane) Victoria de Grazia, L’impero irresistibile, tradotto in Italia qualche anno fa, e arriva a postulare uno scontro tra la «cultura americana dei consumi» e la «civiltà europea del mercato».
La strada italiana al capitalismo occidentale non avrebbe soltanto il merito di aver superato una dualità così radicale e profonda, ma indicato anche in che misura realizzare la definizione-ossimoro di «classicismo moderno», intorno a cui, in filigrana, muovono tutte le indagini contenute in «Umanesimo e tecnologia».
Verificare la portata di tale novità e il grado di successo raggiunto è un’operazione che potrebbe riservare più di qualche delusione. È chiaro che il tentativo di disegnare una “terza via del capitalismo” è andato incontro al fallimento nel momento in cui nella storia economica e culturale del Novecento si è andata spegnendo l’esperienza della Olivetti, l’azienda forse più attrezzata e accreditata per conseguire un obiettivo così alto. Ciò però non significa che fosse uno sforzo destinato già dall’inizio all’insuccesso perché fondato su basi traballanti. Anzi, alla prova dei documenti che sono contenuti in questo volume, in larga parte sparsi su riviste e dunque sconosciuti, e che riguardano soprattutto l’impegno di Fortini tra il 1947 e il 1963, la sensazione di percorrere la direzione giusta si rafforza anziché affievolirsi. Fortini è figura centrale nel processo di individuazione di questo «classicismo moderno». Sua è, per esempio, l’idea di chiamare con nomi greci i prodotti per scrivere e quelli per eseguire calcoli. «Il nome d’una macchina deve avere un valore evocativo, deve poter suggerire un’associazione, un’immagine» spiega sull’house organ «Notizie Olivetti» del marzo 1956. «Lexikon è il nome dei dizionari, dove si raccolgono tutte le parole che la macchina per scrivere, in potenza, contiene; Synthesis è il nome greco di quell’atto della mente che riunisce gli elementi dell’analisi ed è quindi adatto ai sussidi del lavoro burocratico che schedano e classificano; Refert è la parola di sapore araldico per uno strumento che ripete e riporta suoni e parole». In questo elenco non poteva mancare Tetractys, la potente calcolatrice battezzata in onore di Pitagora e del «numero quaternario formato dalla somma dei primi quattro numeri ed equivalente a dieci». Può anche darsi che in tutto questo ci fosse una buona dose di astrazione intellettualistica. Tuttavia la presenza di un poeta negli uffici dove si decidono le strategie della comunicazione ha il significato non soltanto di una provocazione, ma di un preciso orientamento etico: affermare il principio che non può esserci tecnologia orfana del senso della tradizione, riconoscere nei fenomeni dell’industrializzazione l’origine di una nuova metrica che finisce per influenzare anche le forme della poesia.
La frontiera della “terza via” si trova nelle manifestazioni ibride ed è proprio in quelle oscillazioni di contrari che Fortini attinge quando immagina lo slogan per la Lettera 22, la più geniale delle macchine per scrivere Olivetti: «Leggera come una sillaba / completa come una frase».
Giuseppe Lupo
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