di Jacopo Giliberto
Petrolio e diritti sulla CO2 a prezzi record, ma oggi arriva più gas (anche dalla Russia)
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Ancora meno gas di quanto prevedessero i pessimisti più cupi. Secondo i nuovi dati della Transizione ecologica, nel 2021 che si è concluso un mese fa l’Italia ha estratto dai suoi giacimenti nazionali molto meno metano di quei già tristemente pochi 4 miliardi di metri cubi: dal 1° gennaio al 31 dicembre i giacimenti italiani hanno prodotto appena 3,34 miliardi di metri cubi di gas. Il 18,6% in meno rispetto a un 2020 già reso sconfortante dalle clausure sanitarie. Ai primi anni 2000 l’Italia ne estraeva circa 20 miliardi di metri cubi l’anno.
L’avverbio usato sopra (“tristemente”) deriva dal fatto che al ridursi dell’estrazione non ha corrisposto la riduzione né dei consumi né delle emissioni che ne derivano. Al contrario. Riduciamo sì l’uso dei giacimenti a chilometri zero, e riduciamo di conseguenza la manodopera dei lavoratori italiani, ma al tempo stesso bruciamo più metano (76,1 miliardi di metri cubi, cioè il 7,2% in più) e per farlo lo importiamo da Paesi remoti (72,7 miliardi di metri cubi, +10%).
A titolo di confronto, secondo alcune stime estrarre il gas in Siberia e comprimerlo per migliaia di chilometri di tubature produce emissioni cinque volte maggiori rispetto alla produzione in zona.
Il ministero della Transizione ecologica ha pubblicato il nuovo censimento bilancio italiano del gas, aggiornato a tutto il 2021. Qualche numero. Le due fonti principali di gas per l’Italia sono la Russia (29,06 miliardi di metri cubi) e l’Algeria (21,16). L’Algeria ha aumentato molto il flusso, quasi raddoppiato dai 12 miliardi di 2020; ma anche la Russia nel 2021 ha accresciuto l’invio di metano verso l’Italia, contrariamente ai luoghi comuni che parlano di tagli alle forniture. È chiaro; sono medie annuali che nascondono le oscillazioni. Ma la Gazprom ha sempre assicurato le forniture a prezzo concordato dai contratti di lunga durata.
Terza provenienza con 7,31 miliardi di metri cubi (+7,5%) è il gas liquefatto sbarcato nel terminale di rigassificazione al largo del delta del Po, controllato da ExxonMobil (70,7%), con Qatar Petroleum (22%) e Snam (7,3%).
E poi, nuova proposta, nel bilancio del 2021 compaiono i 7,21 miliardi di metri cubi affluiti dall’Azerbaigian attraverso il Tap, il metanodotto avviato un anno fa dopo le proteste senza fine dei comitati nimby. Altre voci sono la Libia, l’Olanda con la Norvegia, i terminali di rigassificazione di Livorno e La Spezia.
Il contributo del gasdotto Tap, la ripresa dell’Algeria e il fatto che la Russia abbia continuato a esportare verso l’Italia hanno dato disponibilità aggiuntiva e a prezzi competitivi che ha consentito anche il fenomeno dell’export. Quando le quotazioni del metano sul mercato italiano erano leggermente inferiori a quelle furibonde del mercato europeo, i trader hanno comprato in Italia. Così l’Italia è diventata anche un paese esportatore di gas. Quantità piccole, 1,54 miliardi di metri cubi, ma indicative.
Il crollo dell’estrazione italiana viene non solamente dallo svuotarsi dei giacimenti più vecchi ma soprattutto dalla riottosità sociale nei confronti delle cosiddette “trivelle”: le norme sempre più severe cambiano di continuo e le compagnie da anni non si fidano a spendere per ravviare i giacimenti, così nel sottosuolo le riserve perdono fiato.
È accaduto per esempio in Emilia, dove per il terrore sismico da dieci anni decine di piccoli giacimenti di gas sono stati congelati per legge e per i quali sarebbe sufficiente restituire il via libera all’attività.
Scientific Reports ha appena pubblicato uno studio dell’istituto geologico Ogs di Trieste e dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia secondo cui la presenza di un giacimento di metano sopra una grande faglia attiva «indica che quella faglia difficilmente genererà forti terremoti, e viceversa», dicono i ricercatori.
Jacopo Giliberto
giornalista
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